testo di Ivan Masciovecchio.
Cinta affettuosamente dalle acque del Tordino e del torrente Vezzola, Teramo – l’antica Interamnia romana – sembra esibire quasi con pudore le innumerevoli bellezze che pure è in grado di offrire. A cominciare dallo spettacolare Paliotto d’altare in argento di Nicola da Guardiagrele, capolavoro assoluto del quattrocento abruzzese custodito all’interno dello splendido Duomo cittadino e che da solo farebbe la fortuna di qualsiasi altra città d’arte del mondo.
Unanimemente riconosciuta come l’espressione più elevata della tradizione abruzzese, caratterizzata ed arricchita dalle influenze delle diverse dominazioni succedutesi nel tempo, l’offerta culinaria della città tra i fiumi trae essenzialmente origine ed ispirazione dalla terra, abbondante com’è di carni, verdure, legumi ed erbe aromatiche. Una proposta povera – figlia di un passato agropastorale ormai remoto ma mai dimenticato – ed allo stesso tempo straordinariamente ricca di piatti unici e genuini, nonché di preparazioni dai gusti decisi ma incredibilmente equilibrati, esaltate dagli odori provenienti dai fertili e profumatissimi orti familiari cittadini.
Perdersi all’interno delle sue tipicità rappresenta senza dubbio un’esperienza complessa e totale; eterogenea come il piatto che più di tutti ne esprime davvero l’assoluta peculiarità. Stiamo parlando delle virtù, capaci di conquistare senza riserve anche Carlin Petrini – presidente onorario, ideatore e fondatore del movimento internazionale Slow Food – il quale, scherzando ma non troppo durante una sua visita in Abruzzo di qualche anno fa, si propose come loro ambasciatore nel mondo, rimarcandone l’aspetto ecologicamente ed eticamente sostenibile, «perché l’atto di non sprecare è quanto di più virtuoso ci possa essere».
Le virtù, infatti, raccontano storicamente dell’incontro tra l’inverno che finisce e la primavera appena arrivata, quando al termine del lungo periodo di freddo mani sapienti di donne univano gli avanzi delle provviste stipate in dispensa con le primizie offerte dalla nuova stagione, dando vita ad un piatto unico – oggi considerato di altissima cucina – completo, ricco ed incredibilmente armonico, inserito dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali da giugno 2013 nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani.
Un trionfo di gusto, profumi e consistenze, molto più di un semplice minestrone, che si compie nella festa del primo maggio (anche se in passato veniva preparato e gustato durante tutto il mese) quando non c’è casa teramana in cui non se ne assapori una o più porzioni belle abbondanti, condividendole in maniera orgiastica con familiari e conoscenti, facendo attenzione a non dimenticarsi di inviarne qualche mestolata agli amici più cari, anche per non rischiare di veder compromessi per sempre legami d’affetto che sembravano inscindibili.
Descriverne la ricetta e, soprattutto, la lavorazione è operazione quasi impossibile. L’Associazione dei Ristoratori Teramani dentro le mura – il sodalizio nato nel 2009 dall’unione di diversi osti del centro storico allo scopo di promuovere e valorizzare le specialità locali – tempo fa ha provato a stilarne addirittura un disciplinare riconoscendo, però, al contempo, che questo piatto si fregia della piacevole comparazione tra le varie preparazioni, essendo il risultato di un vero e proprio rito collettivo che si rinnova ogni anno ed al quale tutte le famiglie cittadine prendono parte.
Fondamentale è l’utilizzo di materie prime di qualità, ricercate e prenotate nei mercati contadini da fornitori di fiducia già sul finire del mese di aprile. La lista degli ingredienti appare davvero senza fine comprendendo – senza pretesa di esaustività – legumi secchi (fagioli, ceci, lenticchie, cicerchie) e freschi (fave, piselli), verdure ed ortaggi freschi (bietola, indivia, scarola, lattuga, borragine, cicoria, spinaci, carciofi, zucchine, carote), erbe aromatiche (aglio, cipolla, aneto, maggiorana, prezzemolo, menta, salvia, timo, sedano, basilico, pepe bianco, noce moscata, chiodi di garofano); passando per prosciutto crudo, osso, orecchie, cotenne e piedini di maiale, carne di manzo macinata, diverse varietà di pasta di grano duro (avendo l’accortezza di spezzettare quella di lungo formato), pasta fresca all’uovo e/o semplicemente impastata con acqua e farina. Ogni alimento viene cotto singolarmente secondo tempi e modalità differenti; per questo occorrono almeno un paio di giorni per completare tutta la complessa elaborazione del piatto il quale, dopo aver riunito gli ingredienti amalgamandoli in uno spazioso paiolo, offrirà il meglio delle sue potenzialità se lasciato riposare per circa un’ora.
Parlando di virtù, infine, è impossibile non accennare anche alle mazzarelle, altro piatto storico teramano offerto nello stesso periodo in quanto i mesi di aprile e maggio rappresentano il momento migliore per alcune erbe aromatiche come prezzemolo, maggiorana, cipolla, aglio le quali, unitamente alle interiora di agnello (la cosiddetta coratella, composta da cuore, fegato e polmoni), vengono avvolte in larghe e tenere foglie di indivia e legate con le budelline dell’animale, dando vita ad una sorta di succulento involtino, da cucinare in padella o al forno con o senza aggiunta di pomodoro.
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