Splendido esempio dell’arte medievale abruzzese. Un’opera che non può essere solo descritta, ma che va raccontata. L’imponente ed articolata mole dei piani, l’ermetico simbolismo delle ornamentazioni, l’inconsueto isolamento della collocazione, sono tutti elementi da riferire al momento storico nel quale la struttura venne ideata, realizzata e completata
testo di Luana Cicchella
L’oratorio di Sant’Alessandro e la torre. Resti di un’opera non finita? Partiamo dalla parte più antica del complesso, ovvero dall’oratorio e dalla sua torre. La struttura piuttosto che a costruzioni pensate sin dall’origine come parte integrante della contigua basilica, sia per la disposizione dell’asse leggermente sfalsata, sia per le caratteristiche icnografiche e ornamentali, sembrerebbe associabile ad un momento costruttivo diverso, seppure prossimo a quello della fabbrica adiacente. Quest’impressione viene confermata e naturalmente chiarita facendo appello a quella che si usa definire “l’occasione dell’opera d’arte”, ovvero la committenza e le motivazioni che ne giustificarono la realizzazione in quel luogo, in quel tempo e con quelle forme.
Secondo quanto riportato nel Chronicon Casauriensis, il promotore delle due costruzioni così come ci sono giunte, fu l’abate Trasmondo, illustre personaggio locale che nell’XI secolo rivestì un ruolo di primo piano nell’ambito della Riforma Gregoriana. A causa dell’eccessivo rigore adottato nella difesa dei principi della Riforma ecclesiastica, nel 1072 l’abate venne rimosso dal suo incarico, che all’epoca consisteva nel priorato di Santa Maria di Tremiti, e richiamato da Desiderio all’Abbazia di Montecassino. Ad intercedere in difesa di Trasmondo fu Ildebrando di Soana che nel 1073, divenuto papa col nome di Gregorio VII, decise di eleggere quel nobile difensore della sua amata Riforma, vescovo di Valva e abate di San Clemente a Casauria.
Il nuovo vescovo valvense era un uomo di nobili origini – suo fratello Oderisio fu successore di Desiderio alla guida di Montecassino – amico di eminenti personalità dell’epoca tra cui Alfano vescovo di Salerno, sapiente ed appassionato intellettuale, cultore dei testi classici.
Una volta insediatosi diede avvio ai lavori di ricostruzione della nuova sede e, per la più celebre ed antica diocesi dell’Abruzzo, Trasmondo ordinò la costruzione di una cattedrale che attraverso le sue forme e le sue decorazioni esprimesse la forza del clero e la resistenza contro il nemico, identificato nelle orde normanne che a quel tempo invadevano l’Abruzzo, guidate da Ugo di Malmozzetto e negli ecclesiastici allontanatisi dai principi sani del cristianesimo delle origini.
L’oratorio di Sant’Alessandro e la massiccia torre quadrangolare attaccata sul fianco sinistro, rivelano a pieno l’intenzione propagandistica del loro committente. Due edifici realizzati sui resti dell’antica e celebre Corfinium, un tempo eletta capitale degli italici. Molte delle sue vestigia, disseminate in quella zona, vennero recuperate ed incassate tra le mura delle nuove costruzioni. Gli splendidi fregi con decorazioni a tralci vegetali e fiori, le cornici a dentelli ed ovoli, i massi lapidei con le iscrizioni romane, i frammenti di colonne, plutei, capitelli corinzi e basamenti disseminati nel cortile, vennero reimpiegati con uno scopo preciso: quelle testimonianze di un memorabile passato dovevano valorizzare ed esaltare i nuovi edifici, simboli visibili del potere e della fermezza del rinnovato insediamento ecclesiastico.
Osservando l’oratorio di S. Alessandro e la sua torre l’impressione è quella di trovarsi di fronte all’imponente transetto di una basilica alla quale manca l’aula con le navate. Saremmo quindi di fronte ad un’opera incompiuta? È possibile, visto che pochi anni dopo l’avvio dei lavori il suo committente cadde in disgrazia. L’abate Trasmondo venne catturato ed umiliato dal Malmozzetto e fu ripudiato dal suo amato pontefice che lo accusò di aver abbandonato le sue sedi ecclesiastiche e gli intimò di tornarsene a Montecassino. Il monaco, non curante dell’ordine del pontefice restò nella sua sede valvense e quando di lì a poco gli venne recapitata la lettera di scomunica di Gregorio VII, il vescovo era oramai morto da giorni.
La nuova cattedrale di San Pelino
Forse proprio a causa di quella lettera di scomunica l’edificio avviato da Trasmondo non venne mai completato dagli abati che salirono dopo di lui sul seggio vescovile di Valva. Non si può certo dimenticare che siamo nel pieno Medioevo, un’epoca caratterizzata dalla superstizione e un momento in cui la damnatio memoriæ di un vescovo considerato traditore non può certamente apparire come qualcosa di anomalo.
In una lapide oggi scomparsa, ma della quale riferì lo storico Ughelli, era scritto che il nuovo vescovo di Valva, l’abate Gualtiero (1104-1128), “diè mano alla fabbrica per la nuova chiesa di S. Pelino, accosto a quella di S. Alessandro…che, nel 1124, vide completata. Vi trasportò le reliquie del Santo, che di sua mano ripose nell’altare maggiore”. Quindi la basilica di S. Pelino fu una consapevole creazione ex novo, così commissionata da Gualtiero.
Agli imponenti spazi e alle rigorose forme del progetto di Trasmondo, nella nuova costruzione subentrarono un’affascinante articolazione di piani, dove sia all’interno che all’esterno si raggiunse una delle massime espressioni dello stile romanico in Abruzzo, caratterizzato dal richiamo all’architettura paleocristiana delle prime basiliche e dall’ispirazione all’arte degli antichi rivisitata in senso cristiano. L’espressione più esaltante di questo richiamo alla cultura classica si ritrova nella ricercata decorazione del portale. Qui i due i tralci vegetali con lembi spinosi che decorano gli stipiti, partono da un grosso cespo d’acanto e terminano agli angoli con due leoni rampanti; dalle fauci di questi hanno origine i due rami del tralcio fiorito che decora l’architrave.
Virtuosismi dei lapicidi abruzzesi: l’ambone e l’abside.
L’allestimento definitivo dell’elegante ornamentazione esterna e la realizzazione del bellissimo arredo liturgico interno, sono invece da ricondursi al periodo del vescovo Oderisio da Raiano (1164-1188). In questa fase del lavoro i lapicidi abruzzesi, esperti modellatori della pietra locale, diedero vita ad ornamenti di raffinata fantasia. Ovunque è un trionfo di foglie e inflorescenze dell’acanto che insieme alle immagini, ai simboli e alle figure tipiche del medioevo fantastico, danno vita ad un sofisticato gioco di decori che allo stesso tempo impreziosisce e mitiga le forme architettoniche.
L’ambone, consistente in un palco quadrangolare con uno sporgente lettorino semicilindrico, è sorretto da quattro colonne con splendidi capitelli finemente lavorati. Tutte le parti strutturali sono decorate con simboli vegetali in cui la perizia dei lapicidi locali si dimostra nella straordinaria capacità di resa degli elementi ondulati e flessuosi delle foglie, dei tralci e delle palmette, attraverso un taglio della materia metallico e sottile. L’insieme alle cornici con palmette dritte e cuoriformi, tralci incrociati e piccoli grappoli o pignette, compongono l’intelaiatura dei plutei al centro dei quali emergono ornamentali fiori dalle forme ricercate ed eleganti. Il ricamo e la grazia scultorea si ritrovano all’esterno negli elementi decorativi dell’abside poligonale. Ma l’inesauribile creatività di queste originali maestranze si rivela anche nelle stravaganti figure animalesche e nelle estrose composizioni di intrecci scolpite sotto gli archetti pensili, a loro volta arricchiti con cornici a dentelli di sega e grossi rosoni. Il motivo del fiore o del rosone che si ritrova disseminato in tutte le costruzioni e gli arredi ecclesiastici del Medioevo abruzzese, rappresenta una delle massime espressioni della maestria dei lapicidi locali. Questi, più che dei veri e propri fiori, sembrerebbero l’immagine del cespo d’acanto che visto dall’alto dà vita attraverso un articolato gioco prospettico a una variegata gamma di forme floreali.
Gli affreschi della cattedrale
L’ultima parte di questa lunga presentazione la dedichiamo agli affreschi. Dopo i restauri eseguiti negli anni ‘60 del Novecento, sotto i rivestimenti barocchi che un tempo decoravano i due edifici e di cui restano come esempio gli splendidi stucchi nelle volte a crociera del S. Alessandro, vennero alla luce una serie di frammenti pittorici realizzati in periodi diversi, alcuni del XIII e del XIV secolo.
All’interno del S. Pelino uno dei dipinti più interessanti si trova nella nicchia ad arco dell’abside di destra. Racchiusa entro una colorata cornice, fatta di bande e tralci dai colori vivaci e variegati, vi è l’immagine di S. Benedetto rivolto verso il centro della composizione, dov’è un Cristo con ali da cherubino. I colori, le linee e quel piccolo arbusto ai piedi del Santo sono caratteri stilistici riconducibili allo sviluppo locale della pittura duecentesca.
Nell’abside del S. Alessandro invece sono presenti due riquadri pittorici con immagini sacre di carattere aulico e celebrativo. In uno troviamo raffigurato S. Alessandro. Il pontefice, in atto benedicente, è posizionato di fronte ad una cortina riccamente decorata, sorretta da due angeli, e ai suoi piedi si trovano due piccoli monaci vestiti di bianco. Nel secondo riquadro, opera probabilmente di un altro maestro, si trova una teoria di Santi: S. Anatolia, S. Caterina, S. Giovanni e S. Onofrio. Queste opere sembrerebbero databili tra la seconda metà del ‘300 e l’inizio del ‘400.