Testo di Alice Pagliaroli – Foto di Alessandro Petrini
Oltre trenta chilometri di vallata rigogliosa bagnata dal fiume Liri, anticamente Clanis, che si concede al fascino delle stagioni e veste ogni volta un abito diverso, circondata dai Simbruini e dalle cime di Pizzo Deta e del Viglio, appartenenti, rispettivamente, alle catene degli Ernici e dei Cantari. Sette Comuni lungo la conca montana che dalla piana del Fucino conduce alle porte della terra volsca laziale. Capistrello, Canistro, Civitella Roveto, Antinum (l’attuale Civita D’Antino), Morino, San Vincenzo Valle Roveto e Balsorano. E poi ancora le frazioni, i borghi che affacciano su panorami e vedute da brivido, che nascondono in bella vista i cimeli del passato, che ostentano con audacia i ruderi e le macerie del catastrofico terremoto del 1915, che coltivano la vegetazione fertile baciata dal sole, che rendono merito ai doni della natura e rinnovano con puntualità la memoria del ruolo giocato dalle proprie montagne, dimora e transito strategico dei Briganti e rifugio dei partigiani durante la seconda guerra mondiale. La storia ha più volte messo alla prova le genti della vallata, ne ha fortificato la tempra e indurito la scorza. La Valle Roveto è un’occasione. L’accoglienza calda di un popolo fedele alle proprie tradizioni vi condurrà alla scoperta di un patrimonio naturalistico straordinario, immacolato nella sua purezza. “Quist ‘lla vallata”, “Quissi della vallata” oppure “Chiss della vallata” secondo le diverse interpretazioni dialettali, le persone che abitano la vallata, si riconoscono parte di un angolo di mondo. Una sorta di “fratellanza” territoriale, ispirata dalla consapevolezza del potenziale di una terra straordinariamente ricca di opportunità.
Sapete qual è la vera meta del viaggio? L’appagamento. Si viaggia per esplorare ciò che non si conosce. L’impatto con la valle del Liri è un innesco emozionale a cui non eravate preparati. Lo sguardo si perde nel tracciare il profilo delle vette, la vista si ferma sui borghi arroccati, come dipinti da una mano pretenziosa; sembrano messi lì dalla natura in persona, parte di un’unica tela bucolica che non ha bisogno di immaginazione. La vallata va vissuta, odorata, assaporata. Ci sono infinite maniere attraverso le quali allacciare con essa un legame, il segreto è concedersi alla terra, lasciarsi travolgere dai sentieri del bosco, dalle alture suggestive, dalle tradizioni e dalle feste popolari, dalle sorgenti d’acqua e dai vicoli che sussurrano le storie di un tempo. Il nostro viaggio comincia allora dalla terra di confine. Caro viandante curioso, dovrai armarti di zaino e piedi buoni per camminare. Incontrerai eremi e castelli felici, darai sollievo al tuo palato, riempirai di bellezza i tuoi occhi affamati, ti metterai alla prova, più e più volte, fino a divenire parte di questo angolo di mondo, perché il segreto per vivere davvero la Valle Roveto è accettarne la sfida.
Balsorano è il primo vessillo abruzzese a ridosso dell’Appennino Centrale al confine col Lazio. Risalendo la terra boaria di Sora, cittadina del frusinate, si arriva alla porta d’ingresso della Marsica, nel solco scavato tra i crostoni montani della Valle Roveto, unica, nevralgica via di transito tra Cassino e l’Abruzzo.
La ex superstrada del Liri, attuale SS 690, frequentata giornalmente da circa 17mila mezzi, tra auto, motocicli e mezzi pesanti, è lo snodo commerciale spartiacque tra il Nord e il Mezzogiorno e si fa strada costeggiando gli argini del Liri, mescolando il vecchio e il nuovo, la natura e il cemento. E sarà l’unica contaminazione alla quale assisterete, in questa vallata di ulivi, castagneti e sorgenti, la presenza del creato è una rassicurante, agiata certezza.
Nella vallata ci si conosce tutti. E non solo tra compaesani, ma anche tra paesi. Ci si chiama per “razza”, che è cosa diversa dal cognome. Più che altro è una sorta di stirpe, si può appartenere a due diverse razze, quella del padre e quella della madre. Solitamente il nome identificativo di tale razza è evocativo di una particolare area territoriale abitata dalla famiglia, di un mestiere tramandato che caratterizza quelle particolari genti, di un accadimento storico o di un tratto caratteriale che si attribuisce loro. Si prende il caffè in casa, tra una chiacchiera e un pettegolezzo. Si va tutti nella piazza del paese ad attendere l’arrivo della sposa, anche se non si è invitati alla cerimonia. Si accoglie la futura ammogliata e la si applaude non appena scesa dall’auto. Troverete sempre, o quasi, le chiavi appese alla porta di casa e le sere d’estate, quando cala il fresco, si spalancano le finestre e si esce a fare una passeggiata. Ci si parla in dialetto, ma non perché non si abbia padronanza della lingua italiana. L’uso della forma dialettale è quanto di più genuino si possa condividere con i propri compaesani. I ragazzi cominciano a viaggiare a quattordici anni per frequentare la scuola secondaria. Alcuni scelgono di studiare ad Avezzano, altri a Sora; più che altro è una questione di distanza e comodità. Ma qualsiasi percorso professionale si intraprenda nella vita, le proprie radici saranno le origini alle quali fare ritorno, in cui riabbracciare gli amici di sempre e confidare loro lo stupore per il tempo passato. Caro viaggiatore, accadrà che i figli della vallata, una volta aver conosciuto il mondo e qualcuna delle sue infinite meraviglie, si soffermeranno sul quadro nel quale sono cresciuti e proverranno a guardarlo con i tuoi occhi. Con distacco.
E se lo faranno nel modo giusto, avvertiranno una morsa nel petto e si sentiranno avvolti da un calore mai provato prima. Ammireranno con sguardo forestiero le proprie montagne e si sentiranno fortunati. C’è un imprinting naturale tra questa terra incontaminata e i suoi abitanti. E non si crea a comando, non si insegna e non si impara. Semplicemente esiste, sin da piccoli. Circa trent’anni fa, agli albori degli anni ’90, le docenti della vecchia scuola elementare di Grancia, frazione di Morino, coinvolsero le classi terza, quarta e quinta in un ambizioso progetto teatrale incentrato sulla storia del brigantaggio. La parete calcarea della cascata era stata dimora dei briganti, le cui vicende erano state tramandate in paese come il più prezioso dei patrimoni lasciati in eredità dalla storia. La messa in scena avrebbe narrato quegli antichi racconti nella reale ambientazione dei fatti, ai piedi della cascata Zompo lo Schioppo. Nelle insenature della roccia lungo la quale scendeva impazzita la furia del salto, infatti, trovavano rifugio gli uomini di “Cutone”, leader dei briganti, colui che aveva l’ultima parola sulle azioni e gli spostamenti del “branco”, che accennava a confrontarsi esclusivamente col suo secondo, “Gianfiore”. Le maestre allestirono la scena nell’area del “Piano Sacramento”, appena al di sotto dello schioppo della cascata, e vollero che la rappresentazione fosse ambientata in notturna. I dialoghi dei bambini erano rigorosamente in dialetto e i piccoli attori vestivano gli abiti tipici di un tempo, con tanto di corsetto e grembiule merlettato per le femminucce. Ciò che colpì le insegnanti durante i preparativi della recita fu quanto accadde in occasione della lettura delle parti. I bambini messi in circolo nella vecchia palestra della scuola provavano le proprie battute quando una delle maestre pose un quesito che richiedeva immediata risoluzione. “Bambini, non abbiamo il titolo della messa in scena. Dobbiamo inventare qualcosa, ma è importante che sia evocativo della storia che racconteremo”. Fu a quel punto che un bambino alzò la mano, si guardò intorno in cerca di consensi per parlare e con voce appena percettibile disse “Se sapess parlà, quanta storie che ptess raccuntà”.
Le docenti si guardarono sbigottite e si lasciarono andare in un applauso soddisfatto e per certi versi incredulo. Il riferimento era alla “signora della natura”, alla cascata maestosa che aveva offerto albergo ai briganti. Quel bambino incarnava lo spirito di un’intera comunità, il rispetto per la propria terra, per la propria cultura, la consapevolezza di quanto si celasse dietro quella vegetazione imponente, che non era rimasta passiva di fronte all’avanzare del tempo, che al contrario si era fatta sfondo della storia e ne era divenuta protagonista. Un aneddoto dal passato, caro esploratore, potrà magari svelarti l’anima di questo popolo di periferia. Amico viaggiatore, non sei il primo, né sarai l’ultimo a tracciare la rotta nelle terre del Liri. Molti secoli prima di te, intorno all’ottocento, questo viaggio fu meta del Grand Tour che i giovani aristocratici europei dovevano compiere in Italia, ed in alternativa in Grecia ed in Oriente, per arricchire la propria formazione culturale. In molti, tra filosofi, artisti e letterati attraversarono la grande vallata.
La descrizione più bella del territorio resta quella dello scrittore francese Alexandre Dumas, che le dedicò svariate pagine del suo diario di viaggio. D’altronde, agli occhi del viaggiatore moderno, si susseguono scorci di paesaggio rimasti invariati sin da quando Dumas percorreva gli stessi luoghi e la “guida” redatta dal grande scrittore è ancora attuale anche per il turista contemporaneo. Egli si soffermò proprio sul territorio di Morino e sulla cascata di Zompo Lo Schioppo. Una sorgente carsica intermittente nel cuore della riserva regionale di oltre mille ettari al confine con il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, che si estingue annualmente nei mesi estivi e autunnali. È la cascata naturale più alta dell’Appennino, l’acqua sgorga da una ripida parete calcarea con un salto di circa centotrenta metri. Il legame che intercorre tra il paesaggio della riserva e l’acqua ne condiziona l’aspetto e l’ecosistema. I boschi di faggio avvolgono e proteggono questa scena naturale in cui la presenza dell’acqua si manifesta in ogni ambiente, dalle più alte sorgenti fino a lambire i centri abitati.
Nascosta alla vista, una ramificata idrografia sotterranea prende corpo nelle grotte, nelle vallette carsiche, nei pozzi e nelle doline, spingendosi tra i calcari fessurati che costituiscono gran parte dell’ossatura dei monti e fuoriuscendo in taluni casi in copiose sorgenti come quella della Pantaneccia, che da sola sopperisce al fabbisogno idrico della Valle Roveto. Infine viene l’uomo, artefice delle sembianze meno spontanee dell’acqua, ad intervenire sulla trama idrografica del territorio con la sua impronta costruttiva. I corsi artificiali canalizzano le acque per l’irrigazione o per l’azionamento dei macchinari.
Questa tradizione, particolarmente viva tra i monaci cistercensi, sopravvive grazie alle formelle, canali in terra ancora oggi utilizzati per irrigare le coltivazioni, testimonianza di un modo di mettere le mani sul territorio con umiltà e discrezione. Tale eccezionale biosistema condiziona fauna e vegetazione, e si fa dimora di esemplari viventi divenuti simbolo di questa terra. Oggi è possibile ammirare le ricchezze della riserva all’interno dell’Ecomuseo ambientale di Grancia, frazione di Morino, allestito nel rispetto del territorio, del paesaggio e delle sue trasformazioni nel tempo. Il percorso di visita studiato al suo interno consente di accrescere la consapevolezza dell’importanza delle risorse della natura, come l’acqua, la biodiversità, il suolo, l’identità.
È stato pensato per essere partecipato, reattivo, diversificato.
La natura e le sue ricchezze vengono raccontate attraverso percorsi emozionali e suggestivi che fanno uso di immagini, suoni e odori dell’Appennino.
Vincente l’idea di dare voce allo sguardo e alle sensazioni dei viaggiatori del passato e degli abitanti del paese. Perché in fondo non esisterebbe bellezza senza i sensi di chi la incontra. Le sorgenti d’acqua sono indubbiamente la più grande delle peculiarità della Valle del Liri. Il nostro viaggiatore a questo punto potrà raggiungere il comune di Canistro, la cui abbondanza idrica fa sì che sia noto ai più come il paese delle acque e della salute. Nel sottosuolo pulsa il cuore di un territorio divenuto simbolo dell’acqua minerale e delle terme, una chiazza sotterranea dalla quale si originano ben cinque copiosissime sorgenti: Sant’Antonio, Fiuggino, Frattaturo, San Vito e Cipollone. La storia di Canistro è indissolubilmente legata allo sfruttamento delle acque. Dapprima mulini e centrali idroelettriche, poi l’inizio delle attività di imbottigliamento dell’oligominerale. L’acqua “Santa Croce”, imbottigliata per la prima volta nel 1975 dalla società omonima, è un prodotto di eccelsa qualità, messa in commercio senza alcuna captazione artificiale, mantenendo quindi la sua purezza originaria. In corrispondenza della fonte Sant’Antonio è nato il parco naturale de “La Sponga”, conosciuto a livello Nazionale e visitato annualmente da più di trentamila persone, a riprova ulteriore di come il patrimonio naturalistico sia divenuto nel tempo un volano turistico e un tratto identitario di assoluto prestigio. Non troppo lontano da Canistro, nel borgo pittoresco di Capistrello, lungo il fianco abitato del Liri, il nostro viaggiatore potrà poi ammirare la più suggestiva delle offerte culturali lasciate in eredità dalla storia. Proprio sul crostone roccioso che affaccia sul corso del fiume, si manifesta la gola dell’Emissario di Claudio, tratto conclusivo dell’inghiottitoio di drenaggio delle acque del lago Fucino verso il fiume Liri. Tale maestosa opera idraulica, unica al mondo, consentì ai romani, e in particolare all’imperatore Claudio, di prosciugare il Fucino attraverso una struttura ingegneristica costituita da un lungo canale sotterraneo scavato sotto il Salviano, sei cunicoli e trentadue pozzi. L’obiettivo era quello di impedire da un lato gli allagamenti dei terreni agricoli circostanti, e di scongiurare dall’altro la diffusione di malattie infettive come la malaria. Ciò accadeva in occasione della diminuzione del livello delle acque, quando i terreni emersi di natura paludosa rendevano insalubre l’aria. Di fatto l’intera portata del lago fu riversata nel Liri e, là dove si adagiava il corpo del Fucino, oggi si rincorrono rigogliosi i terreni coltivati della piana omonima. L’Emissario resta oggi una delle più affascinanti testimonianze architettoniche di epoca romana, soprattutto alla luce della grandiosità dell’opera. La struttura è realizzata in opus reticulatum, tecnica di costruzione per mezzo di piccoli cubetti di pietra disposti a diagonale, ed ha la forma di un altissimo arco, valorizzato dalla florida vegetazione fluviale. Potresti chiederti, magari, qual è il momento giusto per ammirare la valle in tutta la sua bellezza. La verità è che non esisterà stagione più bella di quella che porti nel cuore. Gli schizzi delle sorgenti d’acqua a dare sollievo dall’afa estiva e le straordinario tappeto di foglie lungo i viali spogli dell’autunno sono due delle tante facce di una tela versatile che non smetterà mai di lasciarti a bocca aperta. Dovresti conoscere il freddo rigido di gennaio, quando il mantello bianco delle montagne squarcia il cielo della notte e regala albe e tramonti da capogiro. In quei giorni l’aria avrà l’odore di bruciato. La legna arde veloce dentro le case e qualcuno appenderà il callare sul fuoco per cuocere la pasta fatta in casa. Per lo più si cuociono le patate al coppo, direttamente sulla brace, rigorosamente con la buccia, e si arrostiscono le castagne. Ah, le castagne. Prezioso tesoro d’Abruzzo. Al pari dello zafferano di Navelli o della Gentiana Lutea della Maiella, la genziana. La Roscetta è una varietà autoctona della castagna che cresce nei boschi della vallata, la cui rilevanza in ambito gastronomico veniva testimoniata già negli scritti dei più importanti castanicoltori dell’antico Regno di Napoli.
Oggi sono diversi i Comuni della vallata che celebrano l’esistenza di questa pregiata varietà del marrone fiorentino, e se Canistro annovera la più antica delle festività legate alla Roscetta, Civitella Roveto è oggi conosciuta in tutta la nazione per la tre giorni ad essa dedicata, allestita nella parte del borgo antico, dove confluiscono ogni anno circa cinquantamila turisti da tutta Italia. “Lungo le antiche Rue” è il nome assegnato alla kermesse. Un percorso fitto di cantine e stand attrezzati lungo gli affascinanti vicoli di Civitella vecchia, la cui organizzazione ha inizio a mesi di distanza dalla data fissata per l’evento, solitamente il terzo weekend del mese di ottobre. Oltre cento postazioni enogastronomiche. Ognuna presenta un’offerta culinaria esclusiva, così da offrire ai turisti la più ampia varietà di assaggi. L’unico comune denominatore è dato dalla tipicità della proposta messa in tavola. Tartufo, porcini e verdure locali, formaggi e insaccati degli allevatori del posto, la rinomata pasta e fagioli con le cotiche, le salsicce sott’olio, le patate da poco cavate dall’orto, l’olio dei frantoi di San Vincenzo, il vino rosso cotto al callare, la pasta fatta in casa nel brodo di castagne, le zuppe, il maiale e gli arrosticini di pecora. Questo e molto, molto altro, esaltato da uno speciale clima di festa e dai colori pastello dell’autunno. Le pigne, i rami secchi, i vecchi utensili degli artigiani, il calore delle cantine aperte, ’odore delle caciole. Lungo le rue si crea un legame con queste tradizioni, con questa terra. Ci si sente parte di un mondo che non potrebbe essere diverso da com’è, che richiama alla semplicità di un tempo e alle bellezze ineguagliabili del passato.
Poco più a sud, riscendendo il ventre della valle, si incontrano gli uliveti di San Vincenzo Valle Roveto. Distese verdi e silenziose nel cuore della cornice montana degli Appennini, divenute simbolo del trekking enogastronomico, un viaggio esperenziale di circa 15 chilometri che concilia la degustazione dell’olio alla scoperta dello straordinario patrimonio bucolico delle coltivazioni. Il tragitto è stato attrezzato con segnaletica CAI, bacheche e skyline panoramico, così da essere fruibile tutto l’anno. Lungo la strada il turista potrà consultare i punti informativi con riferimenti agli antichi borghi visitati durante il trekking (Morrea, San Vincenzo Vacchio e San Giovanni Vecchio) e alla storia dell’Eremi antichi.
Una passeggiata rigenerante che condurrà ai frantoi, centro di storia e tradizione, in cui condividere l’assaggio e immergersi nel mondo della lavorazione delle olive, apprendendo il funzionamento dei macchinari e le peculiarità di quello che è un prodotto speciale, figlio dei campi e della fatica degli agricoltori. La visita, rigorosamente guidata, viene accompagna alla degustazione dell’olio. Percepirne i sentori significa coglierne le sfumature. Le diverse parti della lingua permettono di distinguere le componenti organolettiche (amaro, piccante, etc…). L’olio del frantoio viene accostato al pane caldo del posto, o utilizzato come condimento nelle pietanze tipiche.
La particolarità di questo genere di escursione risiede nella ricchezza paesaggistica del tracciato inserito nel percorso. Un itinerario di ineguagliabile bellezza, immerso lungo i tesori ambientali dimenticati; il viaggiatore lascerà il cuore lungo i borghi medievali attraversati durante il trekking. Ammirerà gli alberi secolari della varietà di ulivo autoctona Monicella, le nuove coltivazioni d’olivo in cui sono stati ripristinati terrazzamenti e muri a secco, gli antichi frantoi e la fonte del Tasso. All’olio viene inoltre dedicata la manifestazione “Frantoi Aperti”, appuntamento atteso che conduce alla riscoperta delle tradizioni e dei costumi legati alla attività olivicola e alla vita contadina; per l’occasione gli abitanti di San Vincenzo Vecchio preparano i piatti della tradizione e richiamano i turisti all’interno delle “cantine”, i luoghi di lavoro e di incontro di una volta, in cui degustare gli antichi sapori esaltati dall’olio.
Ad arricchire la manifestazione, convegni e tavole rotonde sui temi dell’olivicoltura, finalizzati a offrire supporto agli operatori del settore, definendone le strategie di sviluppo nel contesto agreste della Valle Roveto.
La vallata è terra di scoperta per lo stesso popolo del Liri. Tra i segreti più affascinanti vi è il silenzio delle cime e le vedute accecanti, per l’eccessiva bellezza del quadro dall’alto. La provocazione delle salite impervie è una sfida impari, la si accetta solo se fortemente motivati e con profondo spirito di umiltà e rispetto per la natura. La sezione rovetana del CAI, il Club Alpino Italiano, ha tracciato la strada degli Ernici e degli affacci più suggestivi del Liri per consentire a chiunque ne abbia il desiderio di concedersi alla montagna. Innumerevoli le iniziative comuni alle quali è possibile partecipare in sicurezza, così da fare del viaggio nella valle un’esperienza estrema, vissuta al massimo delle possibilità. Diversi anche i gruppi di trekking attrezzati, a testimonianza della centralità della natura nella quotidianità della valle.
È infine possibile, caro viaggiatore, attraversare i dorsali montuosi seguendo l’antico cammino del brigantaggio postunitario. Le vicende dei briganti hanno segnato una pagina importante della storia della Valle Roveto, al punto tale che i vecchi sentieri di fuga sono stati segnalati ed inseriti nel nel Grande Cammino dei briganti che attraversa Abruzzo, Lazio, Molise, Campania e Basilicata e ripercorre, in circa un mese, la marcia delle trentanove bande abruzzesi. Il progetto di valorizzazione storico-ambientale è ancora in fase embrionale ed ha coinvolto fin qui i territori di Capistrello, Civita d’Antino, San Vincenzo Valle Roveto e Balsorano. Nei giorni ad esso dedicati, le istituzioni organizzano convegni, escursioni e momenti conviviali incentrati sugli aneddoti storici e sulle storie tramandate dalla cultura orale dei borghi. Il Cammino è un’ulteriore occasione di preservare il passato e promuovere una forma di turismo sostenibile. Dalla rievocazione dell’epopea dei briganti si trae giovamento nell’esaltarne gli scenari e le ambientazioni, rendendole luogo di attrazione comune e facendone meta illustre di curiosi, studiosi e letterati. Le montagne diventano fonte di ispirazione e vengono riconosciute come teatro di vita, come dimora, come rifugio. Riconoscendone il ruolo non si può far altro che ammirarne la bellezza. Sono loro il grande segreto del viaggio, fiere e dominanti, scudo di una vallata bagnata dall’acqua e illuminata dal sole.