“Aquila diventa L’Aquila”
Testo di Fulgenzio Ciccozzi
Quando via Strinella era un percorso alberato e il Torrione una distesa di campi, “Aquila” si ergeva sul colle chiusa tra le sue mura, costellata di antichi palazzi, chiese medioevali, piazze e vicoli animati dalla dignitosa operosità dei suoi abitanti, ma svilita da un’Italia appena nata che evidentemente non riponeva su questa terra grandi progetti. Percorrendo il tempo a ritroso, come nel film Midnight in Paris, mi sono ritrovato d’incanto nell’Aquila de ‘na ‘ote. In questo caso non sono le luminarie che schiarivano les rues de Paris ad accompagnarmi, ma le cime dei monti che fanno da sfondo alla cittadina abruzzese. Le immagini, colte da illustrazioni acrome dell’epoca, d’un tratto si colorano e prendono vita. Proviamo dunque a entrare in quel mondo e iniziamo il nostro cammino affacciandosi nelle taverne e nelle piazze dove i popolani davano vita a un eloquio che non era particolarmente gradito“all’élite” aristocratica dell’epoca; mentre le lavandaie, infagottate con larghi e articolati vestiti, strizzavano i panni lavati nelle fonti rionali. I dipinti del Monet sembravano materializzarsi attraverso le eleganti figure femminili che uscivano dalle chiese dopo la funzione domenicale, addobbate con cappelli piumati a larghe falde e munite di graziosi ombrelli che tenevano abitualmente chiusi.
Nei giorni festivi, e nelle ore pomeridiane, distinti avventori con le bombette calcate sul capo, erano soliti sedersi accanto ai locali adombrati dalle coperture velate dei portici, composte da motivi architettonici che insieme a pendenti luminarie si ripetevano lungo il tratto del loggiato. Accanto ai colonnati e alle porte civiche, i ragazzi, con berretti calati sul viso e i pantaloni alla zuava, si lasciavano riprendere dai primi fotoreporter che imprimevano su lastre fotografiche gli sguardi goliardici della gioventù aquilana. In città, pittoresche insegne pubblicizzavano lo stabilimento artistico a luce artificiale dei fratelli Agamben, con sede a piazza Regina Margherita, e lo studio fotografico di Igino Carli, ubicato al numero civico 36 di via San Bernardino. In questo composito contesto urbano, le carrozze trainate dai cavalli cominciavano a lasciare spazio alle prime automobili che, insieme ai filobus, “sfrecciavano” per le strade polverose della città. Il periodo romantico dell’Ottocento aveva appena ceduto il passo al nuovo secolo che, più di ogni altro, avrebbe messo in evidenza le contraddizioni dell’animo umano. Di lì a qualche anno, le idee socialiste e popolari si sarebbero scontrate con altre ideologie che avrebbero influenzato la società aquilana negli anni a venire. Una società che tentava di riprendersi da una dolorosa guerra e da un terremoto che l’aveva fortemente segnata: le travi di legno che si contrapponevano alle mura dei palazzi e i baraccamenti sorti negli slarghi principali ne erano stati una triste testimonianza. Sul finire degli anni Venti, come a volersi riscattare da un periodo forzatamente interrotto dagli eventi di cui sopra, sembrava ancora persistere l’atmosfera suggestiva della Belle Epoque che il locale delle Tre Marie e la sala Baiocco emanavano attraverso le frequentazioni della borghesia aquilana. Luoghi d’incontro dove si respiravano sapori e aromi particolari che accompagnavano la dialettica degli intellettuali e degli artisti abruzzesi. La grandezza di una città si evince, oltre che dai suoi monumenti, anche dai luoghi più o meno comuni animati dalla poliedrica popolazione comitale e cittadina. Questi spazi non sono stati altro che lo specchio di epoche che hanno forgiato, nella buona e nella cattiva sorte, l’identità socioculturale e urbana del capoluogo abruzzese sino a culminare, in questo caso, con l’esigenza politica dell’epoca di voler modificare il nome della città per renderla in qualche modo unica. Sulla scia della rimodulazione provinciale e comunale dell’Aquila, sotto il profilo territoriale e amministrativo, avvenuta nella seconda metà degli anni Venti, venne deciso il cambio della toponomastica. Nel 1939, sotto la gestione podestarile di Gianlorenzo Centi Colella, si volle mettere mano alla denominazione del capoluogo, già modificata nel 1861 quando al nome d’origine fu aggiunta la dicitura “degli abruzzi”. La richiesta venne inoltrata al governo nazionale tramite una delibera del podestà della città (4 aprile 1939). Con il Regio Decreto n. 1891 del ‘39, si cambiò il nome da Aquila in L’Aquila, aggiungendo la L, con l’elisione del termine “degli Abruzzi”. Si sostituì il complemento di specificazione con l’articolo determinativo per accordare al capoluogo un nome inconfutabile che lo avrebbe identificato inequivocabilmente. Evidentemente, questa scelta non fu condivisa da tutti. Infatti, nel luglio del 1942, il giorno 17, il Podestà “dell’Aquila”, Vincenzo Di Nanna, inoltrò un’istanza scritta (protocollata al n.10189) indirizzata al signor Prefetto e il giorno seguente inviò una nota per conoscenza al Cav. Ten. Colonnello Avv. Adelchi Serena. Nella missiva emerge la seguente osservazione: “L’apposizione dell’articolo in lettera maiuscola, la conseguente trasposizione del nome della città dalla lettera A (cui ha sempre appartenuto) alla lettera L, la cacofonia delle preposizioni disarticolate, snatura lo spirito e l’essenza della tradizione, sconvolge l’ordine naturale delle cose, ripugna al sentimento stesso degli Aquilani, che aquilani (e non l’aquilani) sono sempre stati e desiderano restare”. L’ostentata aquilanità che emerge da questa lettera è frutto degli accadimenti che si sono susseguiti nei secoli: vicende economiche, politiche e sociali che contribuirono allo sviluppo delle arti e dei mestieri. Attività che nel tempo hanno reso la città unica e imperdibile.