Testo di Enrico Di Carlo
Astemio Gabriele d’Annunzio pare che lo fosse realmente, come i biografi sono pronti a giurare, forse perché aveva ripreso in questo dalla madre, donna Luisetta; o forse per non contraddire il suo pensiero visto che, in ogni circostanza, offriva di sé un ritratto pressoché perfetto.
Egli era convinto che il vino potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a sostenere «che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone». E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Barth, al momento della pubblicazione del libro guida alle osterie d’Italia: «Ma in voi l’ardor della sete deve aver distrutto la squisitezza della ghiottornia, caro mio dottore. E chi per ghiottornia / si getta in beveria, canta per voi Messer Brunetto», affermò provocatoriamente nella prefazione.
Eppure, l’occasione è propizia per tessere le lodi della Vernaccia di Corniglia, sul litorale delle Cinque Terre, «celebrata già dal Boccaccio e annoverata dal poeta tra le delizie offerte agli ospiti vegnenti nella feria d’agosto»; e dell’olente vino d’Oliena al quale d’Annunzio lega il ricordo di quando, in compagnia di Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, giunse nella «ospitale Sardegna tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate». I maggiorenti del popolo andarono loro incontro offrendo «il rosso nepente [che] sgorgò dal vetro con quel gorgòglio che suol trarvi dal gorgozzule quei “certi amorevoli scrocchi” di cui parla il nostro Firenzuola!».
Si diceva dei biografi. «Non vino e molto meno liquori», secondo Padre Semeria. Mentre Benigno Palmerio, nel suo quasi inventario che fa degli anni trascorsi insieme a lui alla Capponcina, insiste sulla frugalità dei cibi e ribadisce che «il vino, vino sincero, è per gli ospiti, perché Gabriele, fondamentalmente astemio, se ne bagna le labbra solo in casi eccezionali», preferendo offrire ai commensali qualche goccia profumata, stillante da una boccetta misteriosa: è la famosa “Acqua Nuntia”, da lui stesso inventata «dopo molte e molte notti di studi e d’esperienze».
Nell’aprile del 1901, d’Annunzio era tornato a Bologna per la rappresentazione della “Città morta”. L’occasione fu propizia per mettere allo stesso tavolo, imbandito nella redazione del “Resto del Carlino”, il Pescarese e Carducci, tra i quali non regnava armonia. Naturalmente, il menu scelto fu tipicamente bolognese: mortadella e culatello, cappelletti al brodo, cotolette alla bolognese con tartufi, capponi arrosto e dolce. Il tutto generosamente innaffiato da molte bottiglie di Lambrusco. Ma, al momento del brindisi, d’Annunzio alzandosi in piedi, levò un bicchiere colmo d’acqua che gli era stata versata dal critico teatrale Antonio Cervi: «Dicono che io sia un vizioso, eppure – voi lo vedete, Maestro – non bevo che acqua». Il poeta delle Odi barbare che – a quanto pare – stava sorbendo del generoso Lambrusco, rispose seccato: «E io bevo soltanto vino!”» Nasica, presente all’incontro, ritrasse i due ospiti con una vignetta che pare ancora fresca d’inchiostro.
Il rapporto con l’alcol appare a volte contradditorio: «Mai bere. La coppa di Champagne presa, alzata fino al labbro, posata di nuovo, resta colma» e anche «il bicchiere di vin di Porto, di cristallo intagliato […] rimane colmo». Così d’Annunzio affida le proprie emozioni al suo diario intimo, Di me a me stesso. Siamo, forse, nel 1930. Il 28 aprile scrive di “pericolose esperienze”: «Dopo l’orgia e dopo il lungo digiuno, l’effetto del pasto mattutino – condito da un vago rimorso che somiglia a un vago senso di compiacenza! – quando io astemio chiedo una coppa di Champagne Mumm nella illusione del melenso orgiaste francioso o nostrano». Sono “altre [le] crudeltà raffinate” alle quali fa riferimento il 6 dicembre: «L’indifferenza tra la bibita squisita sul vassoio d’argento cesellato e il bicchiere di grappa o di cognac sul comodino da notte male odorante pel lungo uso…».
Già, la notte. Durante quella trascorsa tra il 13 e il 14 di agosto (dello stesso anno?) tra apparizioni voluttuose e trasfigurazioni della “parte corporale più oscena”, rivela la sua bramosia davanti al desco: «La giovinezza! La fame! Mangio con una delizia insolita. Profitto di tutto quel che è su la mensa: i frutti, i dolci, i vini, i liquori!».
Contraddittorio, si diceva, fu il rapporto con lo champagne. Sembra che ad Arcachon ne avesse vuotato una gran coppa la sera in cui terminò il “Martirio di San Sebastiano”; e che, durante la guerra, nell’anno 1918, dopo aver volato sulle formazioni del Corpo Italiano in Francia, pranzando alla mensa del generale Alberico Albricci, gli vennero serviti dei “magnum” della vecchia Champagne: «D’Annunzio era lieto, come eccitato, e notammo che due volte levò il bicchiere augurale di vittoria».
Ma è pur sempre agli epistolari che egli affida le sue più intense suggestioni.
«Non bevo vino dall’infanzia», scrisse ad Antonietta Treves il 2 marzo 1930. Qualche mese dopo, invece, cedette incredibilmente alle lusinghe del Soave. L’11 dicembre 1930, a Luisa Baccara, affettuosamente chiamata Smikra, confessò di un pasto a base di “buon Baccalà bianco e oliato”, di “frutta intrise di miele” e di “castagne in giuleppe”, e poi: «Io sono imbriaco perché ho vuotato una intera bottiglia – lunga e snella – di Soave veronese».
Appare esagerata l’esternazione che contrasta col ricordo di Antonio Gioco, chef del ristorante “Dodici apostoli”, di Verona. Era lì che d’Annunzio si fermava quando si recava nella città scaligera per seguire la stampa della sua Opera omnia. A tavola venivano serviti rigorosamente vini tipici veronesi: il Valpolicella, l’Amarone, il Bianco Soave delle cantine Bolla:
È il vino della giovinezza e dell’amore – disse un giorno l’estroso commensale, che con qualche debolezza, inconfessabile tempo prima, ora accusava il peso dell’età – non sarebbe più adatto per me, carico di anni e amatore discreto come sono. Ma lo bevo in omaggio al passato: se non mi ridà i miei vent’anni, me ne ravviva almeno il ricordo. Alla fine del pranzo però – assicurava Gioco – le bottiglie rimanevano pressoché intatte”.
Così dopo aver onorato un fagiano alla creta, sul cartoncino del menu lasciò due quartine: cantava e magnificava l’Adige, l’Arena e la “gemma preziosissima S. Zeno”, e parimenti le ghiottornìe di Gioco a cui “soavitade conferisce // lo ambrato vin delle cantine Bolla”.