Testo a cura di Fulgenzio Ciccozzi
Un pomeriggio di fine gennaio ho chiesto a mia figlia, ancora adolescente, di fare un giro per i vicoli dell’Aquila antica. Ho ritenuto opportuno farle conoscere la città lasciando che il racconto e l’immaginazione prendessero il sopravvento sulla parziale quiete che incombe in quei vicoli e fabbricati erosi dall’abbandono e dagli eventi. E’ forse anche questo un modo per consolidare un legame affettivo che i più giovani non hanno potuto portare a compimento per mancanza di un vissuto che li avrebbe voluti protagonisti anche di quegli spazi. Il centro storico è divenuto un tessuto urbano in cui spuntano fortunatamente decine di cantieri.
E’ dunque impossibile intrufolarsi in quei vicoli senza trovare transenne o mezzi e macchinari che ne ostacolano l’accesso. Per uscire da quel necessario caos bisogna percorrere tragitti alternativi che ci proiettano in altri luoghi rimasti latenti ormai da quasi un quinquennio. E’ un mondo surreale quello che si distende tra le rovine della città, in cui le pareti scrostate degli edifici puntellati si contrappongono ai teloni che imbavagliano i palazzi in ristrutturazione. Tra i vicoli, aggrovigliati intorno a piazza San Flaviano, appaiono e scompaiono gruppetti di ragazzi che in quel contesto hanno scovato nuovi e appartati ritrovi. Quegli edifici, che adesso si pongono come dei contenitori vuoti e spenti, dovevano mostrarsi chiassosi e accoglienti quando mio padre, allora poco più che bambino, attendeva alle commesse affidategli dalla zia Maria. Botteghe, falegnamerie, sartorie, beccherie, spacci e cantine inondavano di vita la città. Imboccando via Cimino, a scendere, ci si imbatte in uno degli scenari aquilani più suggestivi: Costa Masciarelli.
Qualche decennio fa, i ragazzi, muniti di tavolozze insaponate, si divertivano a scivolare lungo quel pendio coperto dal selciato. All’estremità della “gradinata”, accanto alla piazzetta di Porta Bazzano, c’era un forno militare. Durante l’ultima guerra, la fragranza del pane appena cotto si diffondeva nel rione e tirava giù dal letto madri sempre pronte a reclamare qualche tozzo di “baguette”. Quasi di fronte allo Sdrucciolo dei Ciuchi, dove abitava il cantore Bellini Ernesto, alias “Picozzo”, c’è Vico della Sfinge. Lì, quando gli angoli delle strade erano ancora illuminati dai “fanali a olio”, aveva preso dimora una donna egiziana. Era venuta all’Aquila per commerciare pizzi e tessuti vari. Invece Concetta Nannicelli, che abitava al Palazzo Franchi, in Piazza Santa Maria Paganica, nella seconda metà dell’Ottocento, insegnava l’arte del tombolo (con punto aquilano) a chiunque aveva il desiderio di imparare a comporre figure ornamentali attraverso il paziente e sapiente intreccio del filato. I merletti aquilani, più volte premiati nelle esposizioni nazionali ed estere, godevano e godono di alta reputazione. Ma giriamo pagina e torniamo nuovamente a essere testimoni del presente. Nello spazio in cui si intersecano via Fortebraccio e la salita che porta all’istituto delle Micarelli, fin su a piazza Bariscianello, il manto stradale si fa particolarmente unto, impregnato da una coltre di calce e cemento che proviene dai cantieri circostanti. Risaliamo e, percorrendo via delle Grazie, passando accanto all’ex mercato del pesce, riprendiamo per il “Corso” lasciandoci alle spalle una città silente. Se quella parte dell’Aquila potesse esprimersi, magari parafrasando una canzone partenopea, rivolgendosi a ognuno di noi direbbe: Io te vojo bene assaje, ma tu ci pienze a me?