Testo di Jenny Pacini
A Guardiagrele, nella bottega d’arte del Maestro del ferro più rock d’Abruzzo.
Entri nella sua bottega e al primo impatto, pensi di trovarti al cospetto di un matto (o di un pirata). Bandana nera con i teschi, camicia a quadri e un lungo grembiule di cuoio, batte all’impazzata sull’incudine, il suo assolo con la materia da forgiare. Alza lo sguardo e gli occhi sono esaltati quanto quelli di un rocker sul palco. Filippo Scioli, 71 anni –portati benissimo- e Maestro del ferro, ricorda vagamente Keith Richards. La sua attività si svolge nella bottega di Guardiagrele (Chieti), dove crea i suoi pezzi con la maestria di un fabbro specializzato nella forgiatura artistica di vari metalli, arte appresa da una lunghissima tradizione di famiglia. “Papà era fabbro, così mio nonno, mio bisnonno e via dicendo -racconta fieramente Filippo con il sopracciglio che sembra un accento circonflesso e il tono pieno e sonoro-, in questo ambiente io ci sono nato. Da piccolo, quando avevo 4-5 anni cominciai a frequentare la bottega.” Così, da bambino, impugna il pesante martello e girando la forgia illumina con ardenti fiammate il suo futuro, scoprendovi un personale stile artistico. Se Scioli prende un pezzo di ferro grezzo, nel giro di poco tempo ne ricava una farfalla, una libellula, un viso, una rosa, una danzatrice. Le forme che ottiene nella realizzazione degli oggetti da un unico pezzo, sono lavori che rivelano eleganza d’esecuzione e leggerezza di forme, al punto che i suoi pezzi, da tempo, sono apprezzati e richiesti in tutto il mondo. E, come un buon rocker, di tournée in giro per il mondo Filippo ne ha fatte tante. Ha partecipato a numerose mostre, a livello nazionale ed internazionale, quali la Mostra Internazionale di Firenze, l’Expò-Rimini, esposizioni a Bari, Roma, Saint Vincent, Sidney, Ginevra (Palazzo delle Nazioni Unite). Molti sono i riconoscimenti ottenuti, che lui ricambia con grande disponibilità partecipando a estemporanee nelle piazze di città italiane. Ogni giorno, Filippo non si dimentica mai del dovere principale di chi fa il suo mestiere: “Aggiusto regolarmente tutto.
La gente viene da me anche per la zappa, il ferro di cavallo porta fortuna, la chiave rotta”, ma lui ha l’estro e il guizzo dell’artista. “La mattina mi alzo e lo stesso materiale che uso per la normale attività di fabbro, può diventare una creazione. Posso inventarmi un coltello dalle catene di una motosega o l’esplosione di una galassia. E sì, proprio per questa opera ho ricevuto un premio.” È un mestiere che si fa solo per vocazione: “Io il ferro quando lo lavoro, lo ascolto, a me parla -confessa Filippo-. Quando vedo il ferro rovente, mi affascina da morire decidere quale sarà il suo percorso. E, se in quel momento una ragazza mi chiede di andare con lei, -e a lui le ragazze piacciono parecchio, a giudicare dai calendari sparsi nell’officina, n.d.r.- non ci vado mica. Il mio lavoro è così, che posso farci?”. La bottega di Scioli è un luogo senza tempo, potrebbe appartenere ad un fabbro del ‘500 perché tutto segue la regola e il rigore della tradizione. “Io la saldatrice l’ho comprata quattro anni fa, ma della saldatura… che me ne faccio?”, precisa quasi con disprezzo. “Le uniche tecniche che conosco, sono la forgiatura e l’antica chiodatura. Oggi, quest’ultima è sempre più in disuso per essere sostituita da antiestetiche saldature e incollaggi”. Filippo esegue tutto rigorosamente a mano, dalle sedie, alla ringhiere alle lavoratissime e note testiere per letti, interamente in ferro battuto pieno con particolari lavoratissimi, vendute persino in Inghilterra e a Copenaghen. Quando si ha di fronte un talento del genere, un Maestro di bottega che è al contempo artigiano e artista, ci si interroga sul futuro di un’attività di tradizione così preziosa. Ebbene, Filippo non ha eredi: “C’era mio figlio, molto bravo e portato per il ferro, ma poi è entrato in Guardia di Finanza e sono rimasto da solo. I nipoti, invece, vivono a Como”. Ma Filippo non è geloso della sua arte e, non a caso, forgia giovani talenti del ferro. “Da me sono venuti apprendisti da tutto il mondo. Albert è slavo, Peter, Oliver e Stefan sono tedeschi, Ken è giapponese. Lui è stato da me per più di un anno. Ai miei allievi dico sempre di seguirmi come un’ombra e di non muovere un dito per circa un mese. Così mi guardano e imparano, poi naturalmente, si dedicano alla pratica. Dopodichè, vanno di fabbro in fabbro in giro per il mondo ad apprendere tecniche diverse. Finiscono poi per aprire officine nelle loro città e credimi, non senza sacrificio. Gli italiani non hanno questa mentalità. Questi ragazzi non si fermano davanti a nulla, dormono con una coperta per terra, hanno un approccio al sacrificio diverso”. Tra le più grandi soddisfazioni, Filippo vanta una pipa ricavata da un unico pezzo di ferro, molto complicata da realizzare. Si tratta di una maniglia di una tabaccheria, circa tre giorni di lavoro. E poi, l’incontro con Marchionne, in occasione del quale il manager si è inchinato di fronte alla grande maestria di un artigiano che sembrava vanificare i macchinosi processi industriali senz’anima: “Ho portato il martello, l’incudine e la fucina dove si arroventa il ferro, proprio all’interno della Sevel. Dopo avermi visto all’opera, Marchionne mi ha detto che ero l’unica cosa vera”.