testo di Ivan Masciovecchio.
Domenica prossima, 16 agosto, festa di San Rocco, saranno passati ben sessant’anni da quando, verso l’ora di pranzo dello stesso giorno, Ettore Verì e Cesare Annecchini – giovani pescatori di contrada Vallevò di Rocca S. Giovanni (CH) – si ritrovarono «increduli, meravigliati e intimoriti» al cospetto di una enorme creatura degli abissi arrivata nelle acque della Costa dei Trabocchi chissà da dove.
In occasione dell’importante anniversario, l’associazione Scoglio del Gabbiano e il circolo pescatori e diportisti Marina di Vallevò hanno allestito per tutto il mese di agosto una mostra fotografica on air nella zona di Vallevò, sul tratto della Via Verde dei Trabocchi – la pista ciclopedonale in via di realizzazione tra Ortona e Vasto, lungo l’ex tracciato ferroviario – dedicata agli avvenimenti storici che hanno caratterizzato questo «ininterrotto e meraviglioso palcoscenico sul mare», con immagini e pannelli esplicativi relativi alla costruzione della ferrovia inaugurata nel 1863, al passaggio dell’ultimo treno nel 2005, alla realizzazione della scogliera ad opera dei cosiddetti «scujarule», alla processione della Madonna del Porto, fino naturalmente al memorabile avvistamento del gigante del mare.
Scomparso nel 2000 papà Ettore e soltanto nel giugno scorso anche l’amico Cesare, a narrarci il moto ondoso di ciò che successe quella mattina del 1960 è Rinaldo Verì, figlio di Ettore, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, ma che è letteralmente cresciuto a «pane e balena» – come ci confida lui stesso – grazie a quella storia che il padre non ha mai smesso di raccontare durante tutta la sua vita, arricchendola ogni volta di nuovi particolari. Non c’era neanche il trabocco di Punta Tufano, ricostruito solo nel 1962 dopo essere stato danneggiato negli anni precedenti da una violenta mareggiata, oggi autentico avamposto informativo, didattico e culturale dove apprendere tutte le peculiarità presenti in questo tratto di costa abruzzese, dai caratteristici agrumeti al vicino Fosso delle Farfalle. «In quel periodo la scogliera era libera da qualsiasi altra struttura. C’era solo una sorta di porticciolo naturale per il rimessaggio di barchette e qualche zattera di canne detta lu cannizzere».
Quella mattina di agosto le condizioni climatiche si presentavano ideali per una battuta di pesca. Mare calmo, sole alto nel cielo, assenza di vento. Armati degli attrezzi del mestiere, i due amici puntarono la prua della piccola imbarcazione a remi chiamata Fortunello verso il mare aperto, senza allontanarsi troppo dalla costa. «Giunti nel posto scelto per calare le reti – prosegue Rinaldo – sul fondo del mare videro come una grande macchia scura, un’ombra che si faceva sempre più nitida. Pensarono subito ad un branco di pesci più numeroso del solito ma purtroppo per loro, giunta in superficie, tra spruzzi ed onde, la sagoma si rivelò essere una balenottera di quasi venti metri di lunghezza per oltre settanta quintali di peso».
Spaventati a morte dai ripetuti colpi di coda di quello che ai loro occhi si presentava come una sorta di mostro marino mai visto prima, ma allo stesso tempo affascinati da quell’autentico spettacolo della natura, Ettore e Cesare si diedero con vigore alla fuga verso l’approdo di Punta Tufano. La balena, forse disorientata o infastidita da quella presenza umana, anziché prendere il largo, sorprendentemente prese a seguirli verso riva. «Così facendo andò incontro al suo inesorabile destino, restando inevitabilmente incastrata tra gli scogli. Provò a girarsi per uscire verso nord ma le acque erano davvero troppo basse. Impaurita, continuava a battere violentemente la sua enorme coda sulla scogliera e sulle barchette ancorate lì vicino, morendo così dissanguata a causa delle numerose ferite riportate. Nell’arco di pochissimo tempo tutta la contrada si riversò a mare per assistere a quella che sembrava la scena di un film. Mio padre mi disse che un macchinista fermò addirittura un treno sulla linea Adriatica, ma su questo non ci giurerei…».
Durante i quattro giorni che la carcassa della balena restò lì tra gli scogli, migliaia di persone arrivarono a curiosare da tutta l’Italia. Grazie al lavoro di giornali, radio e televisioni, la notizia valicò anche i confini nazionali e addirittura continentali, raggiungendo i parenti dei Verì sparsi tra la Germania e l’America. Immerso in un biblico mare color rosso sangue, gonfio e fetido a causa della prolungata esposizione al sole e al contatto con l’acqua, non senza fatica l’enorme cetaceo fu così disincagliato e trasportato al largo di Vasto. «Prima fu ancorato sul fondo del mare – afferma Rinaldo – ma dopo un po’ di tempo si decise di seppellirlo definitivamente a terra in quanto i pesci che si cibavano della sua carne diventavano quasi immangiabili. La fossa fu scavata indicativamente in una zona valliva proprio dietro la spiaggetta di Punta Aderci, a nord del promontorio».
Nel 2010, in occasione dei 50 anni dall’evento, fu lanciata l’idea di una campagna di scavi per recuperarne lo scheletro in modo da renderlo visibile al pubblico, magari utilizzando una struttura già esistente come il Centro di Documentazione Ambientale di contrada Vallevò oppure presso un costituendo Museo della Balena. «A tal proposito – conclude Rinaldo – avevamo stretto contatti con il direttore del Museo del Mare di Pescara, insieme ad un altro ricercatore del CNR, anche se sappiamo bene che le difficoltà sono molte, soprattutto ora che il territorio in questione è sotto il vincolo della riserva naturale. Ma non disperiamo». Nel frattempo, i visitatori che quotidianamente decidono di perdersi nell’incanto della Costa dei Trabocchi, percorrendola in automobile attraverso i tornanti della statale 16 o, meglio, a piedi e in bicicletta lungo il percorso ciclopedonale in via di completamento, giunti in contrada Vallevò potranno continuare comunque ad immergersi nel racconto di quel giorno di agosto di sessant’anni fa, quando proprio lì, tra gli scogli davanti ai loro occhi, il destino di una balenottera comune amaramente si compì.