Testo di Jenny Pacini
La storia di uomo che ha sempre vissuto in mezzo all’argilla, nella bottega maiolicara dove custodisce l’antico mondo artigiano.
Superato il Ponte Grue in prossimità del quale è ancora visibile l’antico mulinetto ad acqua per la produzione dello smalto ceramico, si entra nell’antico abitato di Castelli. Più avanti, dalla piazzetta Marconi si imbocca la Scesa del Borgo sulla quale si affacciano diversi laboratori di ceramica. Sulla destra, in via del Giardino, c’è la bottega di Vincenzo, un artigiano di altri tempi vissuto tra l’argilla, il tornio e le fiamme. Sarà lui a svelarci l’autentico mondo della maiolica castellana. Vincenzo Di Simone ha 81 anni ma è in splendida forma: camicia e pullover protetti da un grembiule, mani e labbra visibilmente sporche di lavoro, braccia e spalle forti -ce ne dà una prova quando pigia e sbatte su un bancone di legno un bel pezzo di argilla per prepararlo alla lavorazione-. Seduto vicino al suo amato tornio a pedale, foggia un uccellino nel giro di pochi secondi e ci racconta candidamente la sua vita con grande dignità e modestia. “Sono nato a Castelli, dove ho sempre lavorato. Sono andato all’asilo, poi a scuola fino alla quinta elementare e ho vissuto sempre in mezzo all’argilla. Tutto qua”.
Come ha capito che la sua vita sarebbe stata dedita alla maiolica?
“Ero piccolo, abitavo vicino ad una vecchia fabbrica, un giorno sono andato lì a prendere l’argilla.” Ci mostra il dito, inclinato a destra all’altezza della falangetta. “Sai i bambini come sono, vedi com’è storto? È stata una zolla di terra che me l’ha pestato ed è rimasto così. Questo è il mio primo ricordo della maiolica, dei tempi in cui seguivo mio fratello e usavo fare i primi pupazzi. Lo sfogo mio era la bottega. E niente, dopo non ho mai smesso di fare questo lavoro”. La tradizione ceramica castellana è sempre stata ben viva e solida, tanto che “i pupazzi” di cui parla Vincenzo, insieme ad altri oggetti come fischietti, pipe, calamai, erano realizzati anche all’interno delle abitazioni stesse. “Mio padre non mi ha lasciato niente -prosegue-. Sai come mi trovo io qua? Devo ringraziare mio fratello che andò in Germania a lavorare in miniera per poi comprare casa e bottega a Castelli. Io, che stavo da 20 anni alle dipendenze del ceramista Luigi De Angelis, quando vidi la fabbrica incominciai ad andarci di sera, poi nel ’60 mi sposai e mollai il padrone”.
Vincenzo, come definisce la sua professione?
“Niente. La professione mia è fare un po’ di tutto dentro la fabbrica: lo stampo, i colori, lo smalto. È tutto qua. Sono ceramista e, a modo mio, faccio quello che faccio”.
C’è una cosa che la fa arrabbiare profondamente, si tratta di chi si spaccia ceramista, lei li definisce “talebani”.
“A Castelli prima c’era la cultura di tutto. Una volta c’era gente che si impegnava per il paese. Invece oggi cosa succede? La cultura e la tecnologia moderna aiutano l’uomo, certo, però il risultato non è all’altezza di quello di una volta, quando la luce non c’era, non c’era niente, dovevi adattarti a fare tutto. Oggi siamo tornati indietro, il forno si accende per i fatti suoi, i colori ti arrivano belli e fatti, l’argilla pure. Da fuori ti vendono già il grezzo e cosa ci rimane dell’artigiano? Di esperti della maiolica ufficialmente ne siamo 55 però, in realtà, ce ne sono solo 6 o 7 che sanno il fatto loro. La cosa che più mi sta sui nervi è che alcuni vanno a Deruta (località umbra nota per la produzione di ceramiche aritstiche, n.d.r.) a prendere il grezzo. I talebani vanno su e comprano le forme di Deruta che non sono quelle tradizionali di Castelli!”.
Qual è la più grande soddisfazione della sua vita e come pensa di tramandare tutto il suo prezioso sapere?
“Ho una famiglia che mi vuol bene. Mio figlio ha preso il mio lavoro dentro la fabbrica che ora si chiama come lui “Antonio Di Simone”. Un punto interrogativo è il mio nipotino di 8 anni che c’ha la mania di fare i pupazzetti. Oggi come oggi deve prima andare a scuola e poi, se gli fa comodo, venire qua dove c’ha già l’avvio, non deve comprare niente -afferma soddisfatto-.
La fabbrica è sua, gli stampi sono suoi”. E la sua puerile meraviglia per l’argilla sembra rivivere, specie quando racconta del nipote e prende tra le mani l’uccellino di terracotta con una cannuccia forata, un tipico gioco dei bambini che, soffiandovi dentro, riproduce il verso degli usignoli.
Lei si può considerare “l’ultimo della ceramica”?
“No, no, no. Io non sono né l’ultimo né il primo, io sono uno che sta nel mezzo; mia madre mi ha fatto, mi trovo qua, mi piace il passato e difendo il mio paese perché ha radici profonde. Però, io non sono nessuno perché come me ce n’erano tanti. Nati così, senza concime e senza terra”.
TERRA ROSSA RIVESTITA DI SMALTO, ECCO COME SI FA
A Castelli, la ceramica era un’attività economica fatta di ricerca costante e di materiali come acqua, legna, argilla, colori, tutti reperibili sul posto. Per foggiare un vaso, un piatto o un qualsiasi altro recipiente dalla base tondeggiante, Vincenzo utilizza il tradizionale tornio a pedale che ci descrive con orgoglio perchè è uno di quelli antichi, con le viti lubrificate dalla “cotica” di maiale. Dispone la terra sul disco girevole e la inumidisce, poi, con le mani dà forma al pezzo di argilla successivamente fatto asciugare e pronto per una prima cottura nel forno. A questo punto, Vincenzo ottiene un pezzo in terracotta, il “biscotto”, che necessita di smaltatura. “La maiolica non è altro che terra rossa rivestita di smalto -spiega-. Lo smalto che faccio non è come quello comperato perché io lo posso ottenere duro, tenero, come preferisco. Giostrando con il piombo, con la silice e lo stagno lo posso fare ad esempio, più ricco e bianco, come il latte.” I colori utilizzati per la decorazione erano ricavati dagli ossidi metallici e il nostro artigiano, che fa tutto da sè come una volta, sa bene come ottenere il blu dal cobalto, il giallo dall’antimonio, il verde ramina dal rame. Poi, alla raffinata decorazione ci pensano le sapienti mani del figlio Antonio. Una volta portata a compimento questa fase, il pezzo viene sottoposto a una seconda cottura all’interno del “forno a respiro” -alimentato con legno di faggio ben secco-, così definito perché durante la cottura emetteva dei rumori simili al respiro umano. Vincenzo ci tiene tantissimo a spiegare tutti gli antichi processi di lavorazione della maiolica e ci mostra l’antico forno della sua bottega che, esattamente come una volta, viene murato nella parte anteriore e aperto solo dopo qualche giorno, per l’estrazione delle ceramiche. Come buon auspicio, ci racconta che i veri artigiani -come lui- accendevano un cero a Sant’Antonio Abate, protettore del fuoco e dei ceramisti. La cottura poteva durare vari giorni, a seconda della quantità degli oggetti da cuocere; in questa fase del ciclo produttivo l’artigiano doveva vigilare costantemente per il mantenimento della giusta “temperanza”. Se chiedete a Vincenzo del suo lavoro davanti al forno, vi risponderà con gli occhi lucidi: “L’arte del gran fuoco ha il fascino dell’eternità.”