Testo a cura di Fulgenzio Ciccozzi
“La storia siamo noi…nessuno si senta escluso!” Estrapolando queste parole da una canzone di un cantautore romano è possibile intuire che le vicende di una comunità possono essere raccontate anche attraverso la vita di ognuno di noi. Ciccozzi Luigi, a Roio, è conosciuto come Giggiò. Il 3 maggio 2014 ha compiuto la veneranda età di 100 anni. E’ nato nel rione Marchittu, quando Roio Piano era ancora comune. E’ passato dunque un secolo da allora. Un secolo denso di avvenimenti che hanno cambiato radicalmente il sistema di vita della gente. Aveva solo qualche mese quando il cuore dell’Abruzzo venne scosso da un violento terremoto, e aveva appena compiuto un anno quando l’Italia prese la gravosa decisione di imbarcarsi nella “Grande Guerra”, nel corso della quale il tuono degli obici scandiva il destino di migliaia di giovani. In età adolescenziale, Luigi lavorò come pastore alle dipendenze della masseria di Equizi Ferdinando, in un’epoca in cui l’industria armentaria si accingeva ad abbandonare le sue antiche consuetudini. Più in là negli anni, venne impiegato tra le maestranze che costruivano strade e fortezze in Albania.
Tornò nei Balcani vestendo l’uniforme militare nel secondo conflitto mondiale. Scampato alle deportazioni e terminate le vicende belliche, come migliaia di altri abruzzesi, sedotti da una caotica fuga dalla miseria, mise il necessario in una valigia di cartone, e nulla conoscendo del luogo di destinazione (se non dai racconti di chi lo aveva preceduto) e della lingua di “Albione”’, emigrò in Australia. Allora i viaggi si facevano con la nave e duravano settimane. Nel nuovo continente Luigi trovò occupazione come operaio in una cava di pietra. Dopo circa sei anni di permanenza, diversamente dall’eroe omerico, Luigi non si adoperò in “arcani” rimedi per dimenticare la Patria e, colto dalla nostalgia per la sua terra, fece ritorno in Abruzzo. E’ rimasto a Roio Piano fino a qualche anno fa. Luigi è una di quelle figure pittoresche che hanno in qualche modo caratterizzato il paese dell’altopiano roiano: uno dei tanti contadini che con un pugno di semi nutriva i campi per raccogliere le messi. Al nostro centenario piaceva rammentare con piglio i suoi trascorsi avventurosi seduto su di uno stallo di pietra adagiato nel punto in cui via Lucoli cede il passo a via Mario Capezzali, ai bordi dell’Aia Grande, accanto a uno dei due fabbricati gemelli che ora ha lasciato il posto a uno spazio esanime. Così come sono esanimi gli altri ritrovi di Roio Piano, il “Paese degli Archi”. Archi, appunto, svuotati e trasformati in sagome di pietra che si sostengono appoggiate a gracili muri morsi dalla devastazione ed erosi dall’abbandono. Questo è ciò che resta delle abitazioni del borgo che lambiscono, disfatte, i vicoli rattoppati alla meglio per consentire il transito a poco più di un pugno di famiglie rimaste nei dintorni dell’Aia. La disponibilità e la propensione a dispensare aiuto ai suoi compaesani nei lavori agropastorali facevano di Luigi una persona ricercata e ben voluta da tutti.
Una vita, la sua, comune a quella di molti altri italiani che hanno avuto la fortuna di assaggiare i frutti saporiti del progresso e quelli più aspri generati dalle guerre e dalla povertà. La sofferenza e l’agiatezza, che si contrappongono e a volte si mescolano, hanno costantemente accompagnato nei suoi eccessi quello che è stato definito il secolo breve: il Novecento. La società italiana che si affaccia nel nuovo Millennio mantiene un basso profilo nei riguardi di coloro che hanno varcato la soglia della terza età. E’ necessario, dunque, voltare pagina e volgere lo sguardo verso un modello di economia sociale. E’ opportuno sensibilizzare le nostre coscienze le quali sembrano essere intrappolate nei gorghi di una società particolarmente complessa che impone ritmi di vita decisamente poco consoni alla salvaguardia dei nostri affetti. Ma torniamo nell’agro roiano, a un tiro di schioppo dall’Aquila. Nel paese, che lo ha visto nascere e crescere, Luigi non ci tornerà. Forse potranno tornarci altri più “giovani attempati” che, per via degli eventi ultimi, sono stati costretti a spostarsi altrove. A tutti loro, voci di una comune memoria, vogliamo regalare un sorriso e far sentire forte la nostra presenza.