Un territorio ubertoso e variegato di risorse artistiche e di sapori, dove il baccalà viene esaltato in una famosa sagra, al teatro si riserva un festival di rilievo nazionale e il rispetto per la scrittura ha dato luogo all’apprezzata Mostra del Libro
testo di Enrico di Carlo
«È su un colle in amena posizione, fra i fiumi Vibrata e Salinello, il clima temperato e salubre e in bell’orizzonte. Il territorio è ferace di grano, viti, olivi, gelsi, frutti, pascoli, ecc. Vi sono frequenti fiere di bestiame molto frequentate». Così Enrico Abbate, nel 1903, descriveva il territorio di Sant’Omero nella sua Guida dell’Abruzzo, informando il viaggiatore che in paese si potevano trovare varie locande, l’ufficio postale, che una carrozza l’univa a Nereto al prezzo di 80 centesimi, e che la stazione ferroviaria più vicina era quella di Tortoreto, a 17 chilometri.
Rispetto ai 4473 abitanti dello secolo scorso, Sant’Omero (con le frazioni di Garrufo, Poggio Morello, Case Alte e Villa Ricci) attualmente ne conta 5426, risultando uno dei comuni più popolosi tra quelli appartenenti al comprensorio della Val Vibrata. I suoi confini si estendono su una superficie di 33,97 chilometri quadrati, la più vasta tra le località vibratiane escludendo Civitella del Tronto. È raggiungibile, per chi proviene dall’autostrada adriatica A14, dalle uscite di Val Vibrata e di Teramo-Mosciano Sant’Angelo; da Teramo/San Nicolò a Tordino per chi giunge dalla A24; oltre che dalla confinante provincia di Ascoli Piceno, per chi vi arriva dalle Marche.
Oggi la cittadina, a 200 metri sul livello del mare, il cui nome deriva dal patrono sant’Omero (Himerio vescovo), appare schierata su un colle in vista dell’Adriatico, volendo utilizzare una bella immagine dello studioso Giammario Sgattoni, tra i più illustri figli di questa terra. Una località che sembra condurre la sua tranquilla esistenza osservando, con signorile distacco, l’attività frenetica che si svolge nella valle circostante. Così, mentre attorno alle mura dell’antico e suggestivo borgo, la vita è resa movimentata prevalentemente dal viavai degli scolari (è sede di Direzione Didattica) e di chi si reca agli uffici comunali, a quelli postali o negli istituti di credito, ai piedi della collina ferve invece l’operosa attività di numerosi stabilimenti industriali, posizionati sia lungo il nastro scuro della statale per Garrufo così come, sul lato opposto, ai fianchi della strada che scivola lungo la “Bonifica”.
E altre strade, quelle della città, si animano poi straordinariamente nel mese di luglio, quando si spandono d’intorno gli allettanti profumi della tradizionale e assai rinomata sagra del baccalà, organizzata dalla Proloco. Ma S. Omero non è solo luogo di sapori. Qui, infatti, cibo e cultura si sono uniti in matrimonio. La biblioteca comunale intitolata a Gabriele d’Annunzio, che dalla scorsa estate ha la sua nuova sede nel restaurato Palazzo Dauri, è una sorta di officina medicinale dell’anima, luogo d’incontro e di crescita, e mette a disposizione un nutrito fondo bibliografico in cui spiccano particolarmente le due fornite sezioni dedicate rispettivamente all’abruzzesistica e all’editoria per ragazzi.
Una sensibilità che si riflette anche in due iniziative importanti come il festival del teatro comico, con interpreti italiani e stranieri che hanno contribuito ad inserire S. Omero in un circuito di respiro nazionale, e come la mostra del libro, il cui programma prevede iniziative rivolte agli studenti di ogni ordine e grado oltre che a un pubblico adulto. D’altronde S. Omero troneggia su luoghi ricchi di storia, sicuramente più di quanto l’incuria del tempo e l’insensibilità degli uomini non lascino supporre.
È ancora Giammario Sgattoni, uno studioso che alla passione per la storia e per l’archeologia ha sempre coniugato l’amore per la propria terra, a riferire in una pubblicazione del 1979 di scoperte avvenute a Garrufo. Quelle che portarono al recupero di una “tomba a cappuccina”, cioè la modesta sepoltura di un agricoltore romano vissuto duemila anni fa, ultima di una serie di analoghi rinvenimenti che, in tempi successivi, hanno riportato alla luce un grande sarcofago di tufo, suppellettili di sepolture italiche e tesoretti monetali frequentemente affioranti tra le zolle. Mentre risale all’Ottocento il rinvenimento del cippo di Sant’Omero, sito all’inizio della strada verso i Colli di Sant’Omero, lì dove l’occhio spazia su un panorama d’incomparabile bellezza, compreso tra la montagna e il mare.
Tracce di storia di epoca moderna sono tuttora rintracciabili tra le antiche ruette del centro cittadino. Ciò che il Touring Club, nella guida d’Abruzzo e Molise, sbrigativamente menziona come Palazzo Marchesale del Rinascimento, è stata la dimora, nella metà del Seicento, di Alvaro de Mendozza y Alarcon, proprietario dei feudi di Sant’Omero e di Poggio Morello. Dedito alla vita ecclesiastica, D. Alvaro fu uomo generoso e sensibile, come documentano numerosi atti notarili ma soprattutto la fondazione, proprio a S. Omero, di una importante istituzione benefica, il Monte di maritaggi.
Prima di immergersi nuovamente nella modernità della Valle, si consiglia una visita alla sconsacrata e trecentesca chiesa della Misericordia, detta Marchesale, adibita prevalentemente allo svolgimento di conferenze e mostre, così come alla Parrocchiale, ove, sovrapposto al coro, è l’organo costruito nel 1760 dal maestro Onofrio Cacciapuoti. Lo strumento subì nel tempo diverse asportazioni, veri e propri atti vandalici in quanto – così scriveva Sandro Cristofari ventisette anni fa – «lasciato nel più completo abbandono, in un clima di diffusa insensibilità e ignoranza». Da qualche anno a questa parte non è più possibile ammirare il famoso guerriero loricato, una scultura lapidea del 1400 così definita dalla “lorica”, cioè la corazza, in essa rappresentata. Il guerriero, rinvenuto nell’agro santomerese e quindi collocato nell’androne del Palazzo comunale, è stato rimosso per consentire i lavori all’interno dell’edificio ed attualmente è custodito al chiuso di un deposito, in attesa di un futuro e si spera idoneo allestimento.
Delle frazioni che compongono il Comune, la più importante storicamente è Poggio Morello, entità amministrativo-territoriale autonoma fino agli inizi dell’Ottocento della cui lunga storia molto ha scritto un attento storico locale: Antonio Iampieri. Il paese, le cui origini risalgono probabilmente ai primi decenni dell’anno Mille, conserva, tra le emergenze architettoniche di maggiore rilievo, il Palazzo Striglioni, tipica abitazione di famiglia agiata. Il primo documento nel quale compare l’espressione Podium Morelli risale all’inizio del XII secolo. Si tratta del Catalogo dei Baroni, un elenco molto dettagliato di tutti i feudi e feudatari del Regno normanno, con l’indicazione dei militi e dei serventi dovuti dai singoli feudatari al sovrano ed offerti in quella occasione a motivo di una magna expeditio non meglio precisata. Nel luogo ebbe sede, intorno al secolo XI, il monastero benedettino di S. Lorenzo a Salino.
Di più modeste dimensioni è invece l’abitato di Villa Ricci, sorto intorno alla chiesa dedicata alla Madonna dell’Immacolata Concezione (1893). Il piccolo centro ha rappresentato per diversi decenni del secolo scorso il fulcro dell’economia locale, grazie alla presenza di numerosi mulini ad acqua. Ancor oggi è possibile visitare, presso la famiglia di Francesco Di Addezio, quello appartenuto alla famiglia Ricci. Storie semplici, di una antica civiltà contadina, che riemergono anche grazie all’impegno della Proloco, un’attiva organizzazione che, nei giorni del solstizio d’estate, torna a raccontare di vecchi mestieri e momenti di vita quotidiana, mentre gli ultimi bagliori del sole sembrano non dover mai tramontare dietro la lunga catena montuosa.
I mulini non sono l’unico richiamo turistico della zona. Altre significative emergenze sono rappresentate, in località Case Alte, dalle cisterne di epoca romana chiamate localmente Grotte dei Saraceni, e, soprattutto, dalle pinciaie, case contadine in terra cruda la cui tipologia prevalente in Val Vibrata, secondo la studiosa Guendalina Di Sabatino, presenta una pianta rettangolare e struttura articolata su uno o due piani. Rarissime sono invece le pinciaie a tre livelli così come quelle a pianta quadrata.
Sono le ultime evidenti testimonianze di una cultura popolare il cui recupero è affidato per lo più all’impegno delle associazioni locali e di pochi volenterosi. Ma tutto ciò meriterebbe certamente una intelligente valorizzazione da parte degli enti preposti, al di là di qualche “pieghevole” pubblicitario.