Una storia da riscoprire tra miniere, archeologia industriale e la
Grotta della Lupa
Tra i tesori “nascosti” e in parte “dimenticati” del territorio abruzzese rientrano sicuramente le miniere, che, attraverso i millenni fino ad oggi, permettono di ricostruire le trasformazioni sociali, culturali e industriali che hanno caratterizzato parte dei nostri luoghi. La loro riscoperta e la ricostruzione della loro storia produttiva si devono soprattutto al GRAIM (Gruppo di Ricerca di Archeologia Industriale della Majella), un’associazione informale, composta da singoli esploratori e studiosi, alcuni, fra l’altro, referenti di associazioni e territorialità diverse; un esempio virtuoso di sinergica collaborazione che, in poco più di tre anni, ha portato ad acquisire importanti scoperte. Oltre allo studio delle miniere, si annovera la recente scoperta della Grotta della Lupa, la grotta più estesa della Majella, tuttora in corso di esplorazione. Le miniere e le infrastrutture minerarie insistono sui comuni della Provincia di Pescara, quali Abbateggio, Caramanico, Lettomanoppello, Manoppello, Roccamorice, S. Valentino in Abruzzo Citeriore, Scafa, Serramonacesca, Tocco da Casauria, Bolognano e Turrivalignani. Scafa, all’epoca mineraria stazione di S. Valentino, fu di importanza strategica durante il periodo dell’attività estrattiva sul bacino minerario della Majella in quanto in essa confluiva tutto il minerale estratto per subire i processi di lavorazione. Con Scafa vanno considerati alcuni stabilimenti minori sparsi sul comprensorio. I prodotti venivano trasportati, tramite la ferrovia, ai porti di Ortona, Ancona e Napoli.
Alcune delle miniere più importanti si trovano all’interno del Parco Nazionale Majella. Circa 20 miniere in totale di cui oltre il 95% dismesse (sebbene ancora con materiale estraibile). È importante sottolineare che il GRAIM è stato autorizzato a fare ricerca speleologica per motivi di studio sulle miniere dismesse dall’Agenzia del Demanio, proprietario delle miniere in galleria, dalla Regione Abruzzo, e dal Parco Nazionale della Majella, supportato da alcuni comuni del comprensorio (in particolare Roccamorice, Abbateggio, Lettomanoppello), e dalla Soprintendenza archeologica, di cui ne condividono gli intenti. Nelle miniere della Majella si cavavano principalmente bitume e asfalto.
Sin dall’antichità i contadini scaldavano le “pietre nere” per ricavarne bitume utile a impermeabilizzare i pali di legno per le staccionate, la marchiatura delle greggi e altro. D’altronde il bitume è il più antico materiale a disposizione dell’uomo al fine di impermeabilizzare e sigillare. Le prime tracce dello sfruttamento minerario sulla Majella si datano al Neolitico (nella Grotta dei Piccioni è stato rinvenuto un
panetto di bitume datato circa 4700 a.C.), per arrivare al I secolo d.C., dove il ritrovamento in valle Pignatara di un altro panetto con un’iscrizione, attesta che i romani cavavano bitume in queste zone. Ma è in epoca moderna, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che venne organizzato in forma industriale lo sfruttamento minerario rendendo tale bacino uno dei giacimenti di rocce asfaltiche e rocce bituminose tra i più importanti d’Italia. A partire dal 1844 con l’imprenditore di adozione teatina Silvestro Petrini e successivamente con il toccolano Donato Paparella. Con il primo, scopritore di alcuni
giacimenti d’asfalto nel versante orientale della Majella (quelli già sfruttati in epoca romana), ebbe inizio la produzione industriale di bitume e derivati con lo stabilimento in contrada Gesù Cristo Vallebona di Manoppello. I suoi campioni, presentati all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, attirarono l’attenzione di imprenditori a livello europeo sulle risorse minerarie della Majella che si riversarono nei territori del comprensorio minerario, contendendosi concessioni per lo sfruttamento.
Tra le società più importanti ricordiamo la tedesca Reh e C., e l’inglese N.A.C. (Neuchatel Asphalte Company), assorbite nel corso degli anni dall’italiana S.A.M.A. Ciò diede avvio ad una straordinaria trasformazione nel tessuto sociale del territorio, che vide la costruzione di strade, ponti, ferrovie, teleferiche, centrali idroelettriche, case e grandi stabilimenti per la produzione e la lavorazione dei materiali, con l’impiego di mano d’opera locale. Nel 1930 la storia “ufficiale” parla di circa 1.306 lavoratori tra adulti, ragazzi minori di quindici anni e lavoro nero di donne, da loro testimoniato. Lo stesso impianto ferroviario che lungo il fiume Lavino trasporta i minerali agli stabilimenti è una novità; progettato da Ruggero Petrini (ingegnere meccanico), è una ferrovia a scartamento ridotto, realizzata su un tracciato che, nella parte alta del Lavino, è scavato sul fianco della parete rocciosa. Sarà infatti la ditta Reh & C. a completare tale tracciato ferroviario, dallo stabilimento di Scafa a Pilone, mentre la N.A.C. costruirà le teleferiche che collegavano lo stabilimento di Pianapuccia di Scafa alle miniere.
Gli stabilimenti, in epoca recente, richiedevano grandi quantità di energia elettrica fornita da tre centrali idroelettriche poste sul fiume Lavino. Le centrali idroelettriche sono la centrale “La Turbina” di contrada Decontra di Scafa della Reh e C., la centrale nello stabilimento di contrada Pianapuccia sempre su Scafa e la centrale “La Ramiera” su Turrivalignani: della N.A.C le ultime due. Nel 1917, in seguito alla dichiarazione di guerra alla Germania, il governo italiano requisì le miniere della Reh e C. e della Valle Romana Asphaltminen e la gestione venne affidata nel 1923 alla S.A.M.A. Nel 1941 fu stimato un potenziale di mezzo miliardo di tonnellate di materiale utile su 250 km2 di superficie. Dai materiali estratti, con specifiche lavorazioni, si ricavavano bitume, mattonelle di asfalto, polvere e farina di asfalto, mastice d’asfalto, petrolio, olii vari, zolfo, ecc. Dopo il 1950, le miniere di bitume e di asfalto progressivamente verranno dismesse in quanto tali prodotti e derivati oggi sono ricavati più facilmente dalle lavorazioni del petrolio. Tra le miniere più importanti abbiamo quelle di Pilone, Cusano, S. Giorgio, Torretta, Acquafredda, S. Spirito, Fonticelli, Foce-Valle Romana (si tratta di due miniere unite, denominate dal vallo che c’era), Fonte/Cappuccini, Cunicelle, Pignatara, S. Liberata, Piano dei Monaci – Cese. Il 14 giugno 2015, nel corso di un’esplorazione alla ricerca della miniera di Santo Spirito nel versante di Roccamorice, è stata scoperta la “Grotta della Lupa”, tuttora in corso di esplorazione da parte dello Speleo Club Chieti. Finora conta 1 kilometro e 800 metri circa, costituendo la grotta più estesa della Majella. All’interno della miniera sono state rinvenute tracce di frequentazione da parte dell’uomo: disegni sulle pareti (fra cui i muli, impiegati per trainare i carrelli vuoti in miniera e per il trasporto del materiale estratto), iscrizioni e poi una complessa rete di gallerie su più livelli. Dallo studio delle Riviste del Servizio Minerario, si è potuto ricostruire che l’inizio degli scavi di questa miniera è datato 1891 (mentre tutte le altre miniere all’epoca erano coltivate a cielo aperto). Sono dunque le gallerie minerarie più antiche del comprensorio.
Altre miniere articolate sono quella di Foce – Valle Romana su 8 livelli; quella di Pilone che conta 9 livelli collegati fra loro, dove, fra l’altro, è stata rinvenuta la galleria “delle scritte” di importante valenza antropologica (sono circa ottanta metri quadrati di testimonianze lasciate da minatori) e la miniera di S. Giorgio, 10 livelli. Nella Valle dell’Orta è stata rinvenuta la sconosciuta “Galleria del Ponte” attualmente al vaglio dell’Ente Parco e della Soprintendenza. All’esterno delle miniere troviamo i resti delle infrastrutture industriali fra cui binari, carrelli, tralicci, “pilastrini”, che delimitavano i confini tra le varie società che gestivano le miniere. Ricordiamo che l’acquedotto La Morgia fu scavato per fornire acqua per la miniera del Santo Spirito. Della ventina di miniere censite, restano attualmente centinaia di gallerie sotterranee strutturate su molteplici livelli sovrapposti, chilometri di binari, carrelli, bunker sotterranei, montacarichi, tramogge, stazioni di carico, il tutto in via di deterioramento. Questo patrimonio ha un importante valore archeologico-industriale-antropologico, il cui lavoro di ricognizione e catalogazione può essere considerato un passo iniziale delle Linee Guida per la Tutela, Gestione e Valorizzazione di Siti e Parchi Geo-Minerari previste dall’I.S.P.R.A. In tal senso anche la candidatura del Parco Nazionale della Majella congiuntamente con quello del Gran Sasso e dei Monti della Laga a Geoparco dell’UNESCO per la valorizzazione del sito minerario abruzzese in chiave non solo culturale, ma turistica e lavorativa. Esso infatti potrebbe diventare un polo attrattivo non esclusivo degli appassionati speleologi e archeologi industriali. Infatti, si potrebbero creare, in futuro, con lavori opportuni, percorsi a tappe trekking attraverso i luoghi dell’industria mineraria, stazioni di ristoro, virtual tour, per un bacino di utenza ampio e generalizzato.
Dichiarazioni:
Il complesso minerario della Maiella, in parte rientrante nel Parco, è una testimonianza storica e sociale di notevole interesse oltre ad una peculiarità geologica del nostro territorio. Approfondire la sua conoscenza è importante oggi più che mai in quanto l’Ente, che è candidato a Geoparco dell’UNESCO, lo ha inserito nella lista dei propri geositi, come primo passo per una futura valorizzazione in chiave turistica sostenibile. A Roccamorice, la miniera di Riparossa ha anche restituito una delle più belle e sviluppate cavità carsiche della regione, Grotta della Lupa, che oggi è all’attenzione di un gruppo di ricerca multidisciplinare coordinato dall’Ente Parco.
Franco Iezzi
Presidente Parco Nazionale Majella
Dalla notte dei tempi la Maiella è stata abitata, ha offerto rifugio agli uomini per millenni, i nostri avi ne hanno utilizzato il meglio con costanza e caparbietà. Lo sfruttamento minerario di questa zona lo testimonia. Il nostro interesse nasce da questo: ricercare le radici dell’attaccamento dei nostri antenati alla nostra montagna.
Dino Di Cecco
GRAIM