Testo: Serena Tommasi | Foto: Giancarlo Malandra
Nella valle del Medio Aterno, a poca distanza da L’Aquila, si trova il borgo medievale di Fossa. Aggrappato al monte Circolo (933 metri s.l.m.) lo si può ammirare dalla vallata delinearsi su una grande parete rocciosa che si apre ad anfiteatro. Il comune, nonostante le piccole dimensioni, racchiude una varietà di preziosi e suggestivi tesori, tra cui si annoverano il santuario duecentesco di Santa Maria ad Cryptas e la Necropoli dei Vestini, un sito archeologico di rilevanza nazionale soprannominato la “piccola Stonehenge d’Abruzzo” per la misteriosa presenza di menhir accanto alle sue tombe. Là dove la montagna forma un avvallamento si adagia la parte alta del borgo. Ed è da questa caratteristica posizione all’interno di una conca che sembra derivare il suo toponimo, “Fossa”. Legata alla roccia da un legame indissolubile, che l’ha protetta nei secoli bui del Medioevo ma l’ha anche esposta ad insidie durante i terremoti che si sono succeduti nei secoli, è inserita nel contesto del Sirente Velino, un massiccio di cui il monte Circolo, una delle vette della montagna d’Ocre, costituisce il limite settentrionale.
La facciata della chiesa di San Clemente (ph. Giancarlo Malandra)
La montagna e il fiume collegano Fossa alla valle Subequana, ultimo tratto del fiume Aterno prima di immettersi nel Pescara, in una continuità paesaggistica fatta di castelli e piccoli borghi montani. Guardando il profilo del paese, sul punto più alto, si distingue il caratteristico castello medievale. Le sue mura, dal perimetro trapezoidale, erano munite agli angoli di quattro torri a base quadrata. Risalente all’ XI secolo, fu probabilmente l’edificio fondante del borgo e all’interno delle mura conteneva le prime abitazioni. L’elemento che più si distingue nel profilo è un torrione circolare, curiosamente privo di una porta di ingresso.
Ponte romanico del XIII secolo (ph. Giancarlo Malandra)
Per maggiore sicurezza, infatti, i soldati salivano sulla sommità usando una scala a pioli che poi ritiravano su dietro di loro. Subito sotto il castello si estende la parte più antica dell’abitato, il borgo medievale, riconoscibile dalle peculiari stradine strette e tortuose. Fossa ebbe due momenti di espansione. Dopo la sua fase medievale occupò l’avvallamento all’interno della parete del Monte Circolo, un terreno maggiormente pianeggiante che permise uno sviluppo urbanistico più lineare. La caratteristica di questa zona del paese sono gli archi. Come espediente architettonico l’arco, situandosi sotto le abitazioni, permetteva alle vie di evitare deviazioni, risparmiando spazio e, al contempo, offrendo luoghi di incontro agli abitanti, al riparo dalle intemperie o dalla calura estiva. All’occorrenza poteva anche fungere da antistalla per gli animali. Benchè il borgo antico sia stato gravemente colpito dal terremoto del 2009, che ha causato vittime tra i suoi abitanti, oggi si sta lentamente riprendendo. Ai piedi di Fossa, nella valle, si estende il suo contado agricolo dove già in età medievale nacquero dei piccoli centri abitati attorno ai casolari. Se ne conserva memoria nelle odierne frazioni di Cerro, Le Chiuse e L’Osteria. Nella valle sorgono un cascinale ottocentesco lungo il fiume contenente un mulino ad acqua del XIII secolo e una piccola chiesa di campagna, intitolata al protettore di Fossa, San Clemente. Semplice nelle forme con la sua facciata a capanna, l’interno dell’edificio religioso è stato danneggiato nel tempo dall’azione degli agenti atmosferici e dai terremoti che nei secoli hanno afflitto questa zona. Merita menzione anche un raro esempio di ponte romanico del Duecento che si conserva in località Cerro. La valle è il territorio del comune di Fossa su cui si trovano le tracce più antiche di storia. Fin dal IX secolo a.C. abitavano in questa terra i Vestini, nome con cui i romani chiamarono la popolazione italica che occupava le zone della Valle dell’Aterno e l’Altopiano delle Rocche fino al mare Adriatico. Il primo nucleo abitativo dell’attuale Fossa, doveva situarsi con tutta probabilità sul Monte Cerro, una singolare altura che spezza improvvisamente la vallata, stagliandosi sopra la pianura alluvionale (mediamente collocata sui 700 metri s.l.m.) con un dislivello di 200 metri di altezza.
Veduta del parco della necropoli, in primo piano una tomba a tumulo (ph. Giancarlo Malandra)
Di questo sito protostorico restano pochissime tracce. In epoca romana si sviluppò nelle vicinanze la città di Aveja, riscoperta grazie agli studi archeologici nel 1773. Fu municipio di una certa importanza, come testimonia il fatto che era inserita nel sistema delle grandi arterie di comunicazione con i Sabini e i Marsi grazie alla via Claudia Nova, voluta dall’imperatore Claudio nel 47 d.C. Il tracciato dell’antica via consolare era scomparso ma in tempi recenti è stato rinvenuto un tratto integro di circa 30 metri in zona di via S. Eusanio, durante i lavori di ristrutturazione post sisma. I Vestini mantennero per secoli una loro autonomia rispetto a Roma ma furono assimilati completamente intorno al I secolo a.C. quando fu estesa la cittadinanza romana a tutti gli italici. È difficile stabilire con precisione l’arco di tempo in cui Aveja fu attiva ma testimonianza di questa parabola storica è il parco archeologico della Necropoli di Fossa, vero libro a cielo aperto che racconta oltre 1000 anni di storia. La necropoli fu scoperta in maniera casuale nel 1992 durante i lavori di scavo per la costruzione di impianti industriali. Attualmente il parco si estende su un terreno di 3500 mq tra le località di Casale e Cave di Pietra. Sono state riportate alla luce circa 500 sepolture che testimoniano l’utilizzazione del sito dal IX al I sec a.C. Le tombe più antiche, risalenti all’età del ferro (IX-VIII sec. a.C.), sono le più monumentali. Si tratta di tumuli circolari delimitati da una corona di pietre. Di diametro notevole, tra gli 8 e 15 metri (con l’eccezione del tumulo numero 500 di ben 18 metri di diametro), racchiudevano una tomba lunga e stretta dove il defunto veniva seppellito con il suo corredo. Una particolarità suggestiva caratterizza le sepolture maschili di questo periodo: accanto ai tumuli si situano stele lapidee in allineamento, infisse verticalmente nel terreno.
La chiesa di Santa Maria ad Cryptas vista dalla parete absidale. Località “Le Chiuse” (ph. Giancarlo Malandra)
Considerati veri e propri menhir, in numero di 6 o 8, formavano una linea retta che partiva dalla corona di pietre che circondava il tumulo in corrispondenza del cranio dell’inumato. Il primo monolite veniva inclinato verso la tomba e la linea proseguiva in altezze decrescenti.Non si conosce il significato di questa usanza.
Si può ipotizzare una funzione astronomica-calendariale o la raffigurazione allegorica della vita umana: la stele più piccola rappresenterebbe la nascita mentre l’ultima, inclinata verso la sepoltura, indicherebbe la morte. Quel che è certo è che i menhir conferiscono un indubbio fascino alla Necropoli che è stata battezzata “la piccola Stonehenge d’Abruzzo”.
Veduta dell’interno di Santa Maria ad Cryptas dalla navata. Oltre l’arco trionfale sulla parete di controfacciata si scorge l’abside con il presbiterio (ph. Giancarlo Malandra)
L’uso del sito per i secoli successivi ci restituisce importanti informazioni sulla storia del popolo dei Vestini. Tipologie di tumuli e di corredi varianti nel tempo, ci descrivono l’evoluzione della società e della cultura di una popolazione montana che si aprì ad altre culture del Mediterraneo. Tra i corredi rinvenuti, infatti, è possibile ammirare letti funerari di pregiata fattura con decorazioni in placche d’osso, ceramiche di fattura etrusca e corinzia, gioielli e ornamenti femminili provenienti dalla civiltà punica. Nei secoli si attesta la graduale riduzione della monumentalità delle tombe fino all’assimilazione al costume romano nel I secolo a.C., quando ai tumuli si sostituisce l’incinerazione e si perde l’usanza di fornire al defunto un corredo. Con la fine dell’influenza romana, la zona di Fossa subì il travaglio delle invasioni barbariche. Anche a causa dell’impaludamento della valle, nell’XI secolo l’abitato cominciò a spostarsi sulle pendici del monte che offriva maggiore protezione. Sorte simile toccò a molti borghi delle valli dell’Aterno. La zona divenne poi il confine settentrionale del regno Normanno e a lungo i feudatari, isolati e quasi impotenti, subirono le scorrerie delle bande armate che percorrevano il regno combattendo a favore di una o l’altra casata pretendente al trono di Napoli.
Il ciborio affrescato dedicato alla Madonna del Latte (ph. Giancarlo Malandra)
Nonostante la durezza dei secoli medievali, si ebbe un risveglio dell’arte a partire dalla dominazione sveva. E’ del XIII sec. la chiesa di Santa Maria ad Cryptas, l’autentico gioiello artistico di Fossa. Si tratta di un piccolo santuario dall’estetica gotico-cistercense sito nella frazione Le Chiuse.
Gravemente danneggiato dal sisma, ha riaperto al pubblico nel 2019 dopo un attento restauro. La chiesa fu fondata originariamente come cappella dipendente dal grande complesso abbaziale di Santo Spirito d’Ocre. Il monastero, anch’esso un luogo di interesse grazie alla sua peculiare fortificazione, è oggi una struttura ricettiva. Distante qualche chilometro da Santa Maria ad Cryptas lo si può scorgere in lontananza sul Monte Circolo, rivolgendo lo sguardo a sinistra del borgo di Fossa. Alcuni studiosi hanno sostenuto che Santa Maria ad Cryptas nacque sulle vestigia di un tempio nel IX o nel X secolo d.C. secondo i canoni dell’architettura romano-bizantina. Tipico elemento di tale corrente infatti è l’ambiente sotterraneo della cripta, anche detta ipogeo, nonché alcune peculiarità pittoriche dell’interno. Si ipotizza che inizialmente sia stato un tempio dedicato al culto di Vesta, dea romana del focolare domestico dal culto antichissimo. Su questa struttura, nel Duecento, venne eretto l’edificio religioso secondo uno stile architettonico misto tra il gotico cistercense e la scuola aquilana. Nonostante la chiesa abbia subito rinnovamenti e restauri nel corso dei secoli successivi, anche a causa del terribile terremoto del 1315 che distrusse la parete settentrionale, si presenta ancora oggi nel suo aspetto duecentesco. Il prospetto, dalla forma semplice “a capanna”, non fu probabilmente pensato per essere la facciata principale, lo fu forse la parete al di sotto del campanile. Si può ipotizzare che il cambio di destinazione fu dovuto a ragioni di comodità.
Madonna del Latte. Opera di Gentile da Rocca, 1283, tempera su legno – l’originale è custodito nel Museo Nazionale d’Abruzzo – L’Aquila (ph. Giancarlo Malandra)
Il lato settentrionale della chiesa è situato su un pendio scosceso che ha determinato un pericolo di crollo tale da richiedere un rinforzo: un muro di controspinta dal lato sinistro della facciata dove si nota un elemento asimmetrico aggiuntivo. Il portale d’ingresso è un arco a sesto acuto, in stile misto tra gotico e forme tradizionali abruzzesi: un leone in pietra è posto sulla sommità dell’architrave e altre due immagini della fiera dovevano avere la loro collocazione sui capitelli delle colonnine cilindriche ai lati del portale, decorati a piccoli rilievi. Il leone sulla sinistra è mancante. Sopra il portale è ritagliata una grande finestra rettangolare, probabilmente non facente parte del piano originale del prospetto. Sui lati della chiesa si presentano due finestre a doppia strombatura, lunghe e strette, che mantengono l’originario stile gotico borgognone. La struttura interna della Chiesa è semplice, secondo lo stile funzionale cistercense. É composto di una sola navata, divisa nella sua lunghezza in tre campate. Sulla parete meridionale vi è una semicolonna classica che poggia su una base attica, proviene probabilmente dalla città di Aveja.
Dettagli degli affreschi (ph. Giancarlo Malandra)
La copertura della navata doveva essere a volta, simile a quella dell’oratorio di San Pellegrino a Bominaco, chiesa stilisticamente affine. I pilastri di sostegno per gli archi, appena accennati, fanno supporre l’avvio di una volta a sesto acuto. È probabile che essa non fu mai terminata o che sia crollata subito dopo la realizzazione, finendo per essere sostituita dalle capriate in legno che vediamo oggi. La navata termina con una parete di controfacciata, dalla quale oltre un arco trionfale, si scorge l’abside, sede del presbiterio riservato al clero. L’abside ha una volta a crociera, un soffitto dipinto con il motivo del cielo stellato come si trova spesso nelle chiese paleocristiane (si pensi al mausoleo di Galla Placidia a Ravenna) e successivamente in quelle giottesche (la Cappella degli Scrovegni a Padova, ad esempio). Al centro della navata, sotto l’arco trionfale, si apre una gradinata di grossi mattoni che porta alla cripta sottostante. L’ipogeo di piccole dimensioni contiene un altare di pietra ed un frammento di affresco raffigurante la Crocifissione. L’interno della chiesa è completamente affrescato con due diversi cicli di pitture che costituiscono l’elemento di maggior pregio del santuario, stupendo esempio di arte medievale abruzzese come la si può ammirare in pochi altri siti della regione: l’oratorio di San Pellegrino a Bominaco, San Tommaso a Caramanico, e Santa Maria di Ronzano.
Particolare della parete settentrionale con gli episodi della vita della Madonna (ph. Giancarlo)
Il primo ciclo di affreschi è una sintesi della storia biblica del mondo: partendo dalla Genesi vengono illustrati gli episodi della Creazione, della Passione di Cristo e infine il Giudizio Universale. Come un libro, l’affresco va letto a cominciare dalla metà meridionale della parete di controfacciata: qui si vede la raffigurazione di un Dio giovane, senza barba, che separa il Sole dalla Luna (simboleggianti il giorno e la notte) e le onde dalle spighe (l’acqua e la terra).
Sulla parete meridionale seguono la separazione del bene dal male, la Creazione degli uccelli, degli animali, di Adamo ed Eva. Accanto alla creazione dell’uomo è raffigurato il Monito dell’Eterno ovvero i versi biblici contenenti il divieto di mangiare dall’albero della vita. Quest’ultimo episodio non fa parte della tradizione iconografica, rappresenta piuttosto un elemento di originalità dell’esecutore. In basso rispetto alla creazione, parzialmente leggibile, è dipinta la Cacciata dal Paradiso Terrestre.
Nelle ultime due campate della parete meridionale il ciclo della Genesi si interrompe lasciando spazio a soggetti isolati. Nella campata centrale sono stati riconosciuti i Profeti nelle figure snelle che recano un cartiglio in latino nella mano destra, mentre negli ordini sottostanti gli affreschi sono andati perduti. Nell’ultima campata in alto si stagliano i due santi cavalieri: San Giorgio e San Martino e nell’ordine inferiore sono raffigurati i Patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe. Tra questi due ordini, in discontinuità con la presentazione di personaggi della storia sacra, c’è un interessante raffigurazione dei mesi dell’anno, gli ultimi sei, raffigurati attraverso le attività agricole stagionali.Questo tema è presente anche nell’oratorio di Bominaco dove, curiosamente, si conservano le raffigurazioni dei soli primi sei mesi dell’anno.
L’affresco prosegue nel presbiterio, sulla parete frontale dell’abside.
Tipico dell’arte bizantina, campeggia il Cristo Pantocratore, raffigurazione del Messia seduto in trono nell’atto benedicente, in una posizione centrale e visibile da ogni punto della chiesa. Intorno alla maestosa raffigurazione sacra si svolge il ciclo della Passione. Interessante particolare, al di sotto della raffigurazione della deposizione, si trova il ritratto dei committenti: la famiglia Morelli e alcune figure femminili.
La volta a crociera dell’abside (ph. Giancarlo Malandra)
L’affresco è studiato dagli storici come testimonianza del costume locale. Probabilmente Guglielmo Morelli, raffigurato con scudo crociato, apparteneva ad un ordine cavalleresco. Fu forse per suo desiderio che si decise di dipingere le figure di San Giorgio e San Martino. Sulla parete di controfacciata si chiude il ciclo duecentesco con la potente raffigurazione del Giudizio Universale.
Con tratti grotteschi e quasi sadici i degni della vita eterna vengono divisi dai dannati. Eccentrica rispetto alla tradizione, è la presenza di alcuni monaci che rappresentano la giustizia divina tra le anime. Secondo gli storici, il maestoso ciclo di affreschi fu frutto del lavoro di vari artisti ma, data l’omogeneità di stili, opera di un unico cantiere in cui collaborarono diversi maestri e loro allievi. Si ritiene possibile datare l’intero ciclo tra il 1264, anno della costruzione dell’oratorio di San Pellegrino, di cui riprende alcuni schemi, e il 1283 quando fu realizzata per la chiesa, la Madonna del Latte.La tavola dipinta, opera del maestro aquilano Gentile da Rocca, è una delle più antiche d’Abruzzo.
Oggi conservata nel Museo Nazionale d’Abruzzo a L’Aquila, raffigura la Madonna in trono mentre allatta. In tale raffigurazione si esalta il duplice ruolo di Maria: l’umanità che dà la vita e la sua natura divina. Il culto Mariano, espresso a Fossa nelle numerose edicole votive e nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, fu probabilmente una trasformazione del culto femminile della dea Vesta. Interamente dedicato agli episodi di vita di Maria è il secondo ciclo di affreschi che occupa la parete settentrionale, ricostruita nel XIV secolo dopo il crollo dovuto al terremoto del 1313. È questo un ciclo trecentesco che rispecchia i canoni della scuola giottesca. Esprime dinamicità, armonia ed espressività.
Nella nuova cultura pittorica si esalta un gusto realistico per la natura e per lo spazio, disegnato in prospettiva dagli elementi architettonici. Rappresenta bene questi caratteri la cappella votiva della Madonna dell’Annunciazione, collocata al centro della parete. L’opera di Sebastiano di Nicola da Casentino datata 1486, utilizza un elemento architettonico, il portico, come divisorio tra la Vergine e l’Arcangelo e metaforicamente indica la divisione tra il Terreno e il Divino. Tipicamente giottesco, inoltre è il ritratto di profilo dei personaggi. Completano il corredo della chiesa alcuni elementi successivi come le pitture che si trovano ai lati della Cappella, e quelle dell’edicola posta alla fine della parete settentrionale, entrambe di inizio XVI secolo. Santa Maria ad Cryptas, nei suoi affreschi, è l’incontro tra arte umbra, riconoscibile nelle fattezze dei volti, raffinate ed espressive, e scuola Toscana, tipica per la compostezza delle figure e la composizione realistica dello spazio. Il collegamento tra le culture fu reso possibile anche grazie alle rotte commerciali dell’epoca che rendevano fiorente l’aquilano, come quella della lana. Sul ciglio della parete scoscesa dietro la chiesa di Santa Maria ad Cryptas, si affaccia il convento di Sant’Angelo, un edificio del XV secolo che offre un chiostro riccamente affrescato.
Vi dimorò Berardino da Fossa, beato originario del luogo e autore di una cronaca sull’apertura del convento francescano. Con i suoi numerosi punti di interesse, dalla Necropoli alla chiesa di Santa Maria ad Cryptas, Fossa si conferma un sito privilegiato da cui si può godere di una prospettiva unica sulla storia e sull’arte abruzzese aquilana.