La chiesa di Santa Maria a Mare è nella zona costiera dell’antica Castrum Novum, storico toponimo di Giulianova. Unione fra l’Appennino abruzzese e il litorale Adriatico. Lido dominato dai bizantini nell’alto Medioevo, quando fu Castel San Flaviano. Oggetto di utopie urbanistiche nell’Umanesimo. Gravemente colpita dai bombardamenti bellici, Giulianova è rinata in epoca moderna come meta di turismo balneare
testo di Luana Cicchella, foto di Maurizio Anselmi
La chiesa di Santa Maria a Mare si trova nella zona costiera dell’antica Castrum Novum, storico toponimo di Giulianova (Te). Approdo importante per coloro che dal cuore dell’Appennino abruzzese andavano verso il litorale Adriatico e per chi effettuava il percorso inverso. Lido dominato dai bizantini nell’alto Medioevo, quando prese il nome di Castel San Flaviano. Nel fervente Umanesimo la cittadina divenne occasione per utopici progetti urbanistici. Gravemente colpita dai bombardamenti bellici, Giulianova è rinata in epoca moderna come meta di turismo balneare, in cui godere le tradizioni i sapori tipici della riviera abruzzese. Anche se il monumento non domina più isolato e solitario sulla costa, invasa oramai dal nuovo nucleo urbano, migliaia di persone continuano a fermarsi per ammirare le sue romaniche forme. Col naso all’insù e lo sguardo rivolto verso l’alto, ci si ferma ad osservare stupiti la ricca scultura del portale. Impossibile non restare rapiti dalla bellezza e incuriositi dal fascino misterico delle sue raffigurazioni. I maestri lapicidi che lavorarono a quest’opera lo fecero con una tale perizia da rendere alla dura pietra bianca un’impressione di morbidezza tale da sembrare quasi spuma di zucchero. Fiori, petali, foglie e rami formano rigogliosi cespugli di girali tra i quali si nasconde una moltitudine di figurette. Nelle formelle quadrate del sottarco si dispiega la misteriosa teoria d’immagini, ispirate al fantastico repertorio dei bestiari medievali. Rappresentazioni ambigue, burlesche ed arcane. Uomini che cavalcano dragoni alati o mordono la zampa di una rana, grifi, cavalieri, amanti e figure di storpi, busti di personaggi dall’ignota identità, figure di uomini in pose a metà tra lo strambo e l’osceno. In ogni raffigurazione è racchiuso un significato simbolico, certamente ben noto agli uomini del Medioevo, ma per noi contemporanei spesso indecifrabile. Repertorio immaginario ed immaginifico, pieno di allusioni e doppi sensi, carico di presagi e moniti d’ogni tipo. Forse un calendario, o solo una serie di rappresentazioni fantastiche, con valori apotropaici, significati esoterici o riferimenti generici al peccato e alla rigenerazione da esso. Vi sono scene e personaggi riferibili al giorno in contrapposizione alla notte, ai pianeti, alle stelle, alle novelle, alle feste e altre notizie, rivolte con inquietante bizzarria ai fedeli, agricoltori e naviganti.
La facciata dell’edificio mostra una strana incoerenza delle parti. Il varco d’ingresso è fuori asse rispetto al vertice della terminazione a capanna. Gli spioventi non hanno la stessa lunghezza, perché quello a destra è interrotto dal campanile. Quest’ultimo è piatto a vela monoforata, mentre in un edificio romanico ci si sarebbe aspettati di trovare una torretta quadrangolare, magari con bifore. Molte di queste apparenti anomalie sono il risultato di adeguamenti e trasformazioni eseguiti in varie epoche. Come di consueto nel patrimonio artistico medievale di questa regione, ci troviamo di fronte ai caratteri di quello che può definirsi un monumento-palinsesto. Si tratta di un’opera architettonica che custodisce in ogni parte una traccia della sua lunga storia, con cui ci narra le vicende attraversate nei secoli fino a giungere allo stato attuale. L’edificio, forse realizzato per la prima volta nel corso dell’XI secolo, ha subito una lunga serie d’interventi. A partire dal XII secolo, fino alle manutenzioni più recenti, distruzioni, ricostruzioni, demolizioni, ripristini e restauri, hanno trasformato buona parte dell’aspetto originario di questo splendido Tesoro d’Abruzzo.
L’interno si presenta persino più anomalo di tutto il resto. L’ambiente è scandito da una mezza navata centrale e da una navatella laterale. Qui le panche per i fedeli sono rivolte verso il lato lungo dell’edificio, in una sistemazione certamente inconsueta rispetto al modello tradizionale. L’altare è situato a metà della parete lunga a destra. Così la disposizione, nel suo insieme, arreca un certo stupore al visitatore abitudinario di chiese cristiane romaniche. Si suppone che l’interno fosse in origine ad aula unica e che sia stato alterato nel corso del tempo, fino all’attuale disposizione. A lungo lasciata in pessime condizioni, il Bindi indignato ci riferisce che la chiesa nel 1840 rischiò addirittura di essere demolita. Devastata dai bombardamenti bellici a metà del secolo scorso, è rimasta per molto tempo in un grave stato di abbandono, come rivelano i documenti grafici presenti nella Storia dell’Architettura in Abruzzo, scritta nel 1927 da Ignazio Carlo Gavini, e nei testi più recenti di Mario Moretti: Architettura medioevale in Abruzzo e Restauri d’Abruzzo, scritti nel 1971 e nel 1972. Nel corso della seconda metà del ‘900 iniziative di restauro, non sempre condivise, hanno quantomeno scongiurato la perdita definitiva di un altro straordinario capitolo dell’architettura medievale abruzzese.
V’invitiamo a visitare Santa Maria a Mare, fermandovi ad osservare con attenzione ogni sua parte, e lasciandovi catturare dal repertorio ornamentale. Indagate quelle immagini che svelano e celano allo stesso tempo un passato ancora tutto da capire e da scoprire. Lasciatevi andare al gioco della ricerca del granchio, del geco o della mascherina nascosta tra gli intrecci dei fogliami scolpiti. Provate a cercarli e vi perderete così tra intricati grovigli vegetali, in cui da secoli si ostenta fiera l’eccellenza dei maestri scultori abruzzesi. Scovate certi “improbabili” particolari e fermate tra le vostre foto, tra i disegni o solo nella vostra mente qualcuna di quelle raffigurazioni. L’impressione di quelle immagini sarà tale che non vi servirà annotare il nome del luogo, perché tanto quella “visione”, come era nel Medioevo, possiede in sé la “magia” di ricordarvelo per sempre.